Negare il diritto alla vita di Eluana è giacobinismo costituzionale

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Negare il diritto alla vita di Eluana è giacobinismo costituzionale

10 Febbraio 2009

 

Una tra le interpretazioni più distorte della drammatica vicenda di Eluana Englaro è quella che la riduce ad uno scontro tra “cattolici” e “laici”. Gli uni propugnatori di una “dittatura” della nuda e bruta vita, da difendere ad ogni costo e quasi disumanamente a dispetto di ogni caso particolare, gli altri impegnati a salvaguardare la “qualità” e “dignità” dell’esistenza.

Io ritengo, viceversa, che il conflitto acceso da questo triste caso personale sia piuttosto quello tra una cultura costituzionale liberale, e un altra di derivazione “giacobina”, positivistica, tendenzialmente autoritaria.

Le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Milano – sulle quali si fonda la “procedura” avviata per condurre alla morte la Englaro – affermano che in taluni casi estremi di disabilità sul diritto alla vita “biologica” dell’individuo possa prevalere un’idea personale della “dignità” della vita stessa, in base alla quale è da considerare legittimo anche un intervento attivo – come l’interruzione della nutrizione – diretto a portarne a termine l’esistenza, anche a partire da una ricostruzione a posteriori e indiretta della sua volontà.

Tali sentenze, a mio avviso, sono in flagrante contraddizione con l’articolo 2 della Costituzione italiana, laddove essa recepisce integralmente i diritti universali dell’uomo, e quindi con l’articolo 3 della Dichiarazione dell’Onu del 1948, in cui il diritto alla vita viene enunciato in forma assoluta, senza essere subordinato ad alcuna circostanza particolare.

D’altra parte, ai fini della loro comprensione non è irrilevante il fatto che tanto la Dichiarazione universale quanto la Costituzione repubblicana italiana (e si potrebbe aggiungere la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca, del 1949) si riallacciavano, su questo punto, ad una ben precisa tradizione del costituzionalismo, e cioè a quella liberale anglosassone.

E’ soltanto in quella tradizione, infatti, che il diritto alla vita viene enunciato tra i fondamenti degli ordinamenti politici e giuridici. Esso figura nella terna dei diritti fondamentali per John Locke (vita, libertà e proprietà) e successivamente nella Dichiarazione d’indipendenza dei coloni americani del 1776 (vita, libertà e “ricerca della felicità”). Il diritto al “godimento” e alla “difesa” della vita viene menzionato nelle costituzioni di Pennsylvania e Virginia del 1776, e nella Dichiarazione dei diritti del Massachusetts del 1780. Viceversa nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino votata dai rivoluzionari francesi nel 1789, e nelle Costituzioni che si succederanno negli anni seguenti (1791, 1793, 1795) tra i diritti fondamentali non viene citato quello alla vita, ma quello alla “sicurezza”, insieme alla libertà, alla proprietà e alla resistenza all’oppressione.

La differenza, come è facile comprendere, non è di poco conto. Il diritto alla vita implica che sia illegittimo tanto per i privati, quanto per la pubblica autorità, violare la sfera della conservazione degli individui. Il diritto alla “sicurezza” presuppone al contrario per lo Stato la facoltà esclusiva di “prendersi cura” dei governati: declinata nel costituzionalismo francese, coerentemente, secondo una prevalenza dell’ordine sociale sulle scelte dei singoli. Ciò perché l’idea di diritto soggettivo nella tradizione giuspubblicistica britannica e nordamericana si fondava su una visione religiosa dell’individuo come essere creato ad immagine e somiglianza di Dio, ed in quanto tale dotato di responsabilità morale e dignità. Negli ordinamenti costituzionali liberali anche gli atei e gli agnostici agiscono a partire da un valore sacrale della vita umana. Per quanto essi possano considerare gli esseri individuali come concrezioni casuali e temporanee, si comportano tuttavia come se fossero credenti, postulando la singola vita umana come sacra e dotata di un valore assoluto. Nella Francia rivoluzionaria, viceversa, trova la sua genesi storica il principio dell’autodeterminazione: che apparentemente concede uno spazio virtualmente assoluto alla libertà individuale, ma di fatto delega la concreta realizzazione delle volontà individuali alla volontà generale e alla sovranità dello Stato. 

Le costituzioni sorte tra il XIX secolo e i primi decenni del XX nell’Europa continentale seguiranno il modello francese piuttosto che quello anglosassone: di conseguenza, il diritto alla vita non vi sarà menzionato. Nella cultura politico-giuridica europea all’eredità giacobina si sommeranno il positivismo, i nazionalismi, l’idealismo hegeliano, il marxismo: tutte visioni del mondo umano caratterizzate dall’asserita superiorità del corpo sociale e/o dello Stato sugli individui. In tale contesto si andrà radicando l’idea di una coincidenza tra esercizio dell’autorità politica e ingegneria sociale, con il conseguente compito affidato a governanti “scienziati” di “guarire” le malattie e gli squilibri della società manipolando gli individui (attraverso il governo dell’economia, l’educazione, la propaganda, e infine anche attraverso politiche dichiaratamente eugenetiche). La deriva estrema di queste tendenze è rappresentata dai regimi totalitari del XX secolo. Ma molti segni se ne possono ritrovare anche nel tessuto ideologico alla base dei regimi democratico-rappresentativi contemporanei.

Il fatto che dopo la fine della seconda guerra mondiale nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – e poi nelle nuove costituzioni, varate nei paesi europei sconfitti, che risentono della sua influenza – ricompaia la proclamazione del diritto alla vita si deve fondamentalmente al ruolo di potenza dominante conquistato dagli Stati Uniti in quegli anni con la guerra vittoriosa, ed al trauma del totalitarismo fascista e nazista, in reazione al quale riprende vigore l’idea che il diritto debba innanzitutto salvaguardare la vita umana da ogni mortificazione e manipolazione.

In tale quadro, non c’è da stupirsi se la cultura politico-giuridica egemone in gran parte delle democrazie occidentali abbia però recepito solo superficialmente quell’apporto proveniente da oltreoceano: e dunque abbia continuato a considerare quel diritto come superfluo, o puramente retorico. La deriva accentuatamente individualistico-libertaria inaugurata dal movimentismo politico impostosi dagli anni Sessanta in avanti, l’esplosione della secolarizzazione religiosa, la sempre maggiore presenza di tecnologie potenzialmente manipolative nei territori di confine della vita biologica, hanno poi contribuito in misura decisiva a determinare una pressione imponente nel senso della legalizzazione di interventi volti a condizionare artificialmente la vita individuale nella fase della generazione, della nascita, della morte. Una legalizzazione che ha fatto breccia, sia pur in misura minore e con esiti più controversi, anche nella cultura anglosassone. E che però, appunto, laddove si è tradotta in legislazione positiva o in giurisdizione non ha prodotto come risultato una maggiore indipendenza degli individui dai pubblici poteri, ma al contrario una sempre maggiore invadenza di questi ultimi nei momenti più delicati e decisivi dell’esistenza umana.

Quanti oggi sostengono, relativamente al caso di Eluana Englaro, la legalità della “procedura” di soppressione della vita della paziente in coma giustificandola in base ad istanze di libera scelta individuale fanno dunque propria – anche a dispetto delle proprie intenzioni, e per quanto dichiarino di richiamarsi alla cultura liberale – una concezione in base alla quale l’individuo è subordinato a fini che lo trascendono, la cui interpretazione e definizione spetta in ultima istanza allo Stato. L’insistenza sulla categoria di “qualità” della vita, contrapposta a quella di “vita” pura e semplice, si inscrive appunto in questa tendenza. Implica che le vite degli individui non siano di per sé degne di essere vissute, ma lo siano soltanto a determinate condizioni.

In tale logica è paradossalmente ininfluente, o assume una valenza derivata, ciò che l’individuo interessato opina intorno al valore e al significato della propria vita. E’ infatti la collettività – attraverso l’opinione corrente, l’informazione, il tam tam della propaganda “scientifica”, e infine la deliberazione giudiziaria e legislativa – a stabilire i criteri in base ai quali una vita è “qualitativamente” accettabile, è  vita “vera”. Criteri ai quali gli individui tendono, consciamente o meno, ad adeguarsi. E naturalmente i parametri che tendono ad imporsi sono di natura meccanicistica, utilitaristica, organicistica. Le vite non “degne” sono quelle inabili, che non “servono”, che sono un “peso” per la società. Si apre così la strada alla legittimazione della soppressione degli individui disabili e non autosufficienti: innanzitutto convincendo loro o i loro cari della loro “inutilità”.

Non siamo insomma di fronte ad un’alternativa tra bioetica “clericale” e “laica”, ma a quella tra una concezione sacrale della persona così com’è – unico fondamento possibile per un’effettiva cultura dei diritti individuali – ed un’altra che considera gli individui, i loro corpi, il tempo della loro esistenza, come meri strumenti.