Negazionismo e libertà. Da Faurisson a Berlusconi
27 Maggio 2007
Forse ha ragione Dino Cofrancesco, filosofo e scienziato politico dell’Università di Genova (“Il liberalismo italiano e il negazionismo di Faurisson”, L’Occidentale, 19 maggio). Il “caso” della conferenza presso l’Università di Teramo dello storico francese Robert Faurisson, ospitata e sollecitata dall’africanista Claudio Moffa, avrebbe perso tutto il suo carattere di immane scontro di civiltà se si fossero chiariti meglio i termini della questione. Secondo Cofrancesco, Moffa, come titolare “sovrano” del suo insegnamento, ha il diritto e anzi il dovere di discutere e far discutere “anche le idee più strampalate”, quali la rotondità della terra o l’inesistenza dello sterminio degli ebrei operato tramite l’uso di camere a gas, e quindi di invitare chicchessia. Peraltro, sempre secondo Cofrancesco, “chi svolge un ruolo direttivo” (un rettore, o preside, o direttore di dipartimento) può negare l’uso di una struttura che non sia l’aula in cui il prof. Moffa tiene la lezione e nelle ore previste per la stessa. “Nessuno dei due”, conclude Cofrancesco, “dovrebbe pretendere di più!”
Cofrancesco ha ragione. In fondo, basterebbe un po’ di buon senso. Ma la questione della messa al bando del cosiddetto “negazionismo” per legge non è di oggi, e continua a saltar fuori a ogni pié sospinto. Vi è uno schieramento che, in nome della libertà di parola, approva l’offerta di una platea a pochi e insensati individui, quali appunto Faurisson, i quali fanno finta di credere che sotto il regime nazista in Germania e fascista in Italia non ci sia stata né persecuzione degli ebrei, né sia stato operato un tentativo di pulizia razziale che ha prodotto milioni di morti. Vi è altresì uno schieramento opposto che pretende di mettere fuori legge tutto quanto non si accorda alla loro visione della storia del mondo, magari prendendosela con Faurisson, ma strizzando l’occhio al primo ministro iraniano Mahmoud Ahmadinejad quando questi nega il genodicio ebraico allo scopo di preparare la prossima distruzione di Israele.
La questione della messa al bando del negazionismo per legge, dicevamo, non è di oggi. Dodici anni fa, nel 1995, lo stesso Moffa era stato il primo firmatario di un “Appello per la libertà di ricerca storica sull’Olocausto” che prendeva lo spunto dalla proibizione dell’allora ministro degli interni francese, Charles Pasqua (il primo ministro era Édouard Balladur, il ministro del bilancio Nicolas Sarkozy), avvenuta nel dicembre 1994, di distribuire su tutto il territorio nazionale un libro sulla Seconda Guerra Mondiale, opera dello svizzero Jürgen Graf, che negava l’Olocausto. Tale appello ribadiva l'”efferatezza” dello “sterminio di milioni di esseri umani nei campi di concentramento nazisti”, ma metteva in guardia contro la “tendenza molto preoccupante da tempo in atto in Europa” di “risolvere i dibattiti storiografici in sede giudiziaria, attraverso inaccettabili interferenze della magistratura e del mondo politico … nella vita culturale ed accademica”. L’appello continuava affermando che “la ricerca storica [deve] essere libera da ogni vincolo, e [che deve] essere garantita la più completa libertà di circolazione delle idee … la cui fondatezza e veridicità può risultare solo dal libero dibattito scientifico”.
L’appello del 1995 era firmato anche dal prof. Adolfo Pepe, proprio l’attuale Preside della Facoltà di Scienze Politiche il quale, insieme al Rettore, prof. Mauro Mattioli, ha negato di concedere le strutture universitarie alla conferenza di Faurisson. Anche chi scrive aveva firmato l’appello del 1995, mentre non è intervenuto nell’attuale disputa su Faurisson a Teramo proprio perché, come ben spiegato da Cofrancesco, i termini della questione sono oggi meno chiari di quanto non lo fossero nel 1994-5.
La vicenda del dibattito sulla legittimità del negazionismo dell’Olocausto è ben nota, ma non è l’unico tentativo di accreditamento, per legge, di un’unica versione della storia umana, quella naturalmente che meglio rappresenta la maggioranza politica del momento o, comunque, il pensiero più largamente condiviso tra i detentori del potere intellettuale e culturale. In Francia, sempre all’avanguardia in questo tipo di battaglie, esiste da tempo un soi-disant Comité de vigilance face aux usages publiques de l’histoire (CVUH), coordinato da Sylvie Aprile, della Université de Tours, che non ha perso a pubblicare un dossier su “L’histoire par Nicolas Sarkozy : le rêve passéiste d’un futur national-libéral“.
A questo proposito, forse qualcuno ricorderà il celebre caso dell’intervista rilasciata dall’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, al settimanale conservatore britannico, The Spectator (“The New Imperial Vision of Silvio Berlusconi”, 6 e 13 settembre 2003), firmata dal direttore Boris Johnson e dal giornalista Nicholas Farrell (attuale collaboratore di Libero). In tale intervista Berlusconi diceva la sua sul fascismo e sulla sua storia. Per qualche giorno non si parlò d’altro. Secondo Franco Giordano, oggi segretario del Partito della Rifondazione Comunista (succeduto in quella carica a Fausto Bertinotti, attuale Presidente della Camera dei Deputati), “la gravità” delle affermazioni di Berlusconi [meritava] un’immediata discussione in aula”. Ma Fabio Mussi, oggi ministro dell’Università e della Ricerca e leader della sinistra scissionista, sosteneva che “tecnicamente la nuova esternazione di Berlusconi si chiama apologia di fascismo. Nel nostro ordinamento è un reato”. Non male per quella libertà di ricerca (e dunque di dibattito) che Mussi dovrebbe garantire dall’alto del suo dicastero.
A seguito del coro scandalizzato dei giornali di opposizione, in quei giorni girarono nelle università italiane molti pronunciamenti che condannavano le opinioni di Berlusconi sul fascismo. Una di queste venne proposta anche alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova di cui faccio parte. Era, se non ricordo male, il 17 settembre 2003. In nome della libertà di pensiero di chiunque e su qualunque argomento (incluso dunque Berlusconi e le sue idee sul fascismo, con le quali peraltro ero in disaccordo), fui l’unico a votare contro, impedendo così che tale pronunciamento diventasse una “Mozione unanime della Facoltà di Lettere”. Il mio collega Cofrancesco quel giorno era assente. Fosse stato presente, sono certo che i voti contrari sarebbero stati due.