Negli ultimi trent’anni di storia dell’acqua la sinistra era distratta
22 Luglio 2010
Si fa un gran parlare in questi giorni di acqua pubblica, in contrapposizione alla presunta volontà di privatizzare un bene che, per definizione, non può certo essere privatizzato. Sarebbe come privatizzare l’aria o il mare.
Ma tant’è, certa sinistra è abituata a strumentalizzare tutto sul piano politico, inventando contrapposizioni che non esistono e che solo l’ignoranza può alimentare.
Allora occorre spiegare cosa è accaduto negli ultimi decenni e ripercorrere un dibattito già avviato negli anni ’80 che vedeva contrapposte due distinte visioni del problema: acqua bene sociale o bene economico.
La distinzione fra le due affermazioni non era affatto semantica se è vero che fino alla fine degli anni ’70 si era soliti porre in stretta correlazione il progresso civile dei popoli con i consumi di acqua. Ciò comportava l’idea universalmente accettata che fosse giusto alimentare i consumi per favorire lo sviluppo sociale. La fine di un’epoca dominata dal socialismo reale e, soprattutto, il raggiungimento di una maggiore consapevolezza dei costi economici e sociali da affrontare per il miglioramento del servizio idrico, fece prevalere la seconda definizione, sulla base della presunzione che l’acqua è un bene “finito” e quindi da tutelare. In sostanza si passava da un’epoca in cui l’acqua veniva garantita a titolo pressochè gratuito a tutti, ad una in cui la lotta agli sprechi passava anche attraverso un sistema tariffario che penalizzava l’utenza, specie per le famiglie più numerose.
A conferma di tale analisi, si deve ricordare come l’impegno degli Enti gestori si sia spostato sempre più dalla costruzione di nuovi acquedotti in grado di alimentare le comunità più sperdute, alla ricerca di tecniche sempre più sofisticate per contrastare le perdite reali ed apparenti presenti negli acquedotti.
In sostanza, la filosofia che ispirava gli Enti gestori in quell’epoca era incentrata sull’obbligo di garantire il sevizio a quanti più utenti possibile e la presenza di numerosi “furti” d’acqua, che determinava enormi perdite apparenti, non preoccupava più di tanto: in fin dei conti si trattava pur sempre di utenti serviti e il tentativo di recuperare la fatturazione dei quantitativi rubati non era sufficientemente giustificato da un costo più simbolico che remunerativo.
La conclusione cui si pervenne, con buona pace di tutti, portò alla mediazione che l’acqua, in quanto bene sociale, doveva essere garantita a tutti indistintamente, ma che allo stesso tempo la gestione dell’acqua, in quanto bene economico, doveva rispondere a logiche di mercato (costi remunerativi, lotta agli sprechi ed alle perdite, tutela ambientale in fase di approvvigionamento).
Certo, negli anni sono stati commessi molti errori (si può per esempio osservare il progressivo svuotamento dell’AQP di adeguati ruoli tecnici a beneficio di quelli amministrativi, con l’affermazione del primato della finanza sulla tecnica Idraulica), ma i legislatori si sono in genere affannati a sposare la sintesi del Dibattito, per esempio trasformando l’AQP in SpA e costituendo Autorità pubbliche di controllo, con competenze sia nella definizione delle tariffe, sia nello sfruttamento delle risorse.
Oggi il problema viene strumentalmente riproposto, accusando il governo di voler “mercificare” l’acqua attraverso il Decreto Ronchi, che, in realtà, non propone nulla di rivoluzionario rispetto alla storia recente, ma giunge a suggellare un percorso avviato da decenni, e non ancora del tutto compiuto.
Se dunque il decreto Ronchi fosse fermato dal referendum attualmente in discussione, avremmo interrotto un processo di trasformazione degli Enti gestori, già avviato da tempo e mai concluso. Non è un caso che il più grande Ente acquedottistico italiano (l’Acquedotto Pugliese) si sia trasformato, da oltre un decennio, da Ente Autonomo in Società per Azioni interamente controllata dalla Regione Puglia, dotandosi di una struttura finanziaria tipica di una società privata. Solo per inciso, vale la pena ricordare che, ad alcune recenti accuse in merito alle modalità di assunzione del personale, i dirigenti AQP hanno rivendicato la natura privatistica dell’Ente.
Le precedenti considerazioni dimostrano che i promotori del referendum erano distratti negli ultimi trent’anni di storia dell’acqua in Italia e solo oggi accendono i riflettori su un processo ormai avviato a conclusione con una risposta alle sollecitazioni europee, che da anni vedono l’Italia inadempiente.
Il sospetto che si tratti di una battaglia strumentale e tutt’altro che remoto, giacché, per promuovere il referendum, vengono utilizzati slogan accattivanti, ma assolutamente privi di significato.
Si è già detto della assoluta infondatezza della polemica fra acqua privata ed acqua pubblica, dal momento che non esiste al mondo nessuno che possa sostenere di essere esclusivo proprietario di un bene per definizione “pubblico”.
Occorre anche smontare l’affermazione che l’acqua non è soggetta a “compravendita”, affermazione che fa riecheggiare vecchie e mai sopite polemiche, sulla quale è lecito porsi alcuni interrogativi che riguardano specificatamente la situazione pugliese, ma che possono facilmente essere estesi ad altre realtà nazionali: chi ha promosso l’accordo di programma fra Puglia e Basilicata in tema di acqua? Non furono forse tecnici d’area schierati con l’attuale governatore a volere in questo accordo un risarcimento a consumo a favore della Basilicata? Non furono dunque coloro che oggi animano la polemica sul decreto Ronchi ad instaurare il principio che la Puglia doveva COMPRARE l’acqua dalla Basilicata?
All’epoca, ad esponenti del centro destra che contestavano l’accordo, fu risposto che in fin dei conti si trattava di un prezzo basso e che, tale prezzo serviva a compensare i disagi ambientali prodotti dalle costruzioni delle dighe e comunque si deve ricordare che, per ragioni storiche, l’Acquedotto Pugliese già acquisiva risorse idriche da altri Enti ai quali riconosceva un compenso a copertura dei costi di gestione degli impianti di approvvigionamento.
In realtà, si sanciva, con quell’accordo, un principio pericoloso: la Basilicata VENDEVA l’acqua alla Puglia.
Nessuno, neanche in passato, aveva osato tanto: negare il principio di solidarietà fra Regioni limitrofe (e qualcuno accusa la Lega di essere il primo partito ad alimentare rivalità fra Regioni). Certo, la costruzione delle dighe produce un disagio ambientale e sociale, ma da sempre si erano adottati altri sistemi di compensazione. Basti ricordare che la tanto vituperata Cassa per il Mezzogiorno, ogni volta che finanziava la costruzione di nuove dighe, compensava sempre il territorio interessato con la realizzazione di altre infrastrutture; ma un conto è sostenere l’economia di un territorio occupato da una diga, un conto è pagare l’acqua a consumo, per quanto “con prezzi di favore”.
Sembra tanto la storiella dello zucchero cubano, pagato dai sovietici a prezzi stratosferici pur di sostenere l’economia del più fido alleato comunista. L’acqua si può comprare se a vendere è la regione Basilicata, notoriamente e fedelmente schierata a sinistra, ed a comprare è la Regione Puglia (o una SpA ad intero capitale pubblico). Al contrario, l’acqua non è negoziabile se a gestirla è un Ente privato, magari più efficiente ed in grado di garantire tariffe migliori.
La realtà attuale dice che i cittadini pugliesi, pur serviti da un Ente a capitale interamente regionale, pagano tariffe ben più alte della media nazionale (pur avendo un reddito ben inferiore) e che l’Ente gestore, una volta additato come esempio mondiale di conoscenze e tecniche idrauliche, oggi è un ente incapace di programmare il futuro.
Ma questo non è importante per Vendola e C. Tanto pagano solo i cittadini onesti pugliesi. Che importa se pagano più degli altri italiani? In fin dei conti pagano per una giusta causa: mantenere il potere in mano alla Regione Puglia e sostenere l’economia debole della Regione Basilicata. Per inciso, i cittadini pagano anche la struttura di un’autorità che dovrebbe avere il controllo sul ciclo delle acque e sulla tariffazione: ma che senso ha questa autorità se l’AQP SpA è tutto in mano pubblica?
Insomma siamo alle solite. Si dice che ormai il comunismo è finito, ma si continua a confondere il “pubblico” con lo “statale”. In quale testo è scritto che un servizio, in quanto pubblico, debba necessariamente essere gestito dallo Stato? Sono anni che in Italia si lotta per affermare principi liberali, ma ci si scontra sempre con un “socialismo reale” latente che è ormai iscritto nel DNA della classe dirigente di quella Sinistra di cui Vendola è leader nazionale.
Gli Italiani devono sapere che i veri artefici della “privatizzazione dell’acqua” sono coloro che oggi gridano allo scandalo se si vogliono coinvolgere i privati nella gestione dell’acqua.
Devono sapere che, se pagano l’acqua a caro prezzo, è perché devono garantire la conservazione del potere assoluto nelle mani dei Governi Regionali.
Devono capire che si è posto in essere una strana forma di privatizzazione che, invece di garantire forme di concorrenza a beneficio dell’utenza, consente di lucrare (sotto forma di potere, posti di lavoro ad amici, ecc.) esclusivamente alla casta politica.