Nei partiti moderni (con o senza tessere) conta il carisma del leader
23 Ottobre 2007
Ancor prima di Giuliano Ferrara, già Alexis de Tocqueville nella
sua Democrazia in America rimase abbagliato dai “partiti senza tessere”:
“piccoli partiti” li definì, per contrapporli a quei “grandi partiti”
incommensurabilmente diversi che aveva conosciuto sul continente europeo.
Al cospetto di quella pagina tocquevilliana il lettore, sulle
prime, resta perplesso. Fin quando non comprende che dal viaggiatore francese
gli aggettivi “piccolo” e “grande” non sono riferiti alle dimensioni e tanto
meno al numero degli aderenti, bensì al rapporto che quei lontani antenati dei
nostri moderni partiti avevano stabilito con il sistema politico. I partiti
americani, infatti, si definivano “piccoli” per le passioni e le idee che erano
in grado di veicolare: piccole cose, per l’appunto. Perché quelle
organizzazioni senza tessere né appartenenze strutturate erano in realtà
funzionali alle dinamiche del sistema politico. Avevano un compito importante,
per certi versi insostituibile: rendere possibile che il popolo, in quello
sterminato Paese, potesse eleggere il governo. Quelle strane macchine politiche
che rispondevano al nome di partiti, insomma, erano i canali all’interno dei
quali le passioni – ma ancor più gli interessi -, venivano veicolati per essere
contenuti all’interno del sistema, rafforzandone così il grado di legittimità.
Di contro, per Tocqueville, i “grandi partiti” che aveva visto
all’opera nella sua Francia erano organizzazioni mosse da forti idealità e in
grado di suscitare fortissime attrazioni. Al di là delle tessere, che forse a
quei tempi non esistevano ancora, il vincolo dell’obbligazione che essi erano
in grado di suscitare negli aderenti era robusto e, quel che è più importante,
era avvertito come preminente rispetto alla stessa lealtà nei confronti del
sistema politico. Qualora si fosse posto il problema, un europeo che aveva dato
la propria adesione a un “grande partito” non avrebbe avuto dubbio alcuno: tra
il proprio partito e il sistema politico del proprio Paese, avrebbe scelto il
primo.
Tocqueville, nel dilemma tra “piccoli” e “grandi” partiti non
sapeva che pesci prendere. E lo ammette. I partiti americani, infatti,
sarebbero risultati funzionali alla stabilità del sistema ma, alla fine,
avrebbero inevitabilmente inaridito la loro vena ideale inclinando verso la
corruzione; i partiti europei, invece, non avrebbero corso questo rischio ma,
in compenso, rappresentavano un fattore di crisi e instabilità per i sistemi
dei quali facevano parte.
Lo scontro odierno tra i sostenitori dei “partiti senza
tessera” e quelli dei “partiti con tessera”, almeno
all’apparenza, potrebbe apparire la continuità di quello descrittoci da
Tocqueville tra “grandi” e “piccoli” partiti. Ma si tratta
di un’illusione ottica perché oggi, in realtà, il dilemma tocquevilliano non ha
più ragione d’essere, almeno nei suoi termini originari. I grandi partiti
ideologici che hanno dominato il Novecento sono stati, infatti, sconfitti dalla
storia. Resta da capire, al più, se un ruolo possano e debbano ancora giocarlo
i “piccoli partiti” fatti d’interessi e convenienze, al di là del fatto che
essi continuino ad avere o meno le tessere.
Se per cercare una risposta si guarda all’Italia, la confusione
nel campo sembra regnare sovrana, fino al punto da sfiorare il paradosso.
Coloro i quali hanno da sempre accusato Berlusconi di suscitare pericolose
derive plebiscitarie, si sono messi a organizzare finte elezioni popolari (le
primarie) per eleggere il proprio leader: principio e fine di ogni cosa, visto
che il nuovo partito manca ancora di programmi ben chiari e di organismi
stabili. Sull’altra sponda, i seguaci di Berlusconi (tra cui il sottoscritto)
potrebbero sembrare dei convertiti che organizzano congressi vecchio stile in
ogni angolo del Paese. Alla fine dell’anno ne avranno svolti 4000, chiamando a
votare circa 450.000 iscritti.
A essere maligni si potrebbe chiosare: un bello scontro, tra un
partito senza tessere e delle tessere senza ancora un partito. Ma se si va un
po’ più in profondità, non sarà difficile individuare dietro una spessa cortina
di polvere, l’effettivo punto di contatto tra due percorsi all’apparenza così
diversi. A prevalere, infatti, in un caso come l’altro, è il principio del
partito carismatico: quello per il quale è il leader colui il quale concede
legittimità alla “macchina politica” mentre questa, dal suo canto,
serve al leader per rafforzare la propria presenza e il proprio radicamento nel
Paese. E scelte in apparenza così diverse si riducono, in realtà, ad una
circostanza: Forza Italia il leader ce lo ha già (Berlusconi) e, per questo, ha
bisogno di legittimare il partito. Il Partito democratico fino a ieri non ce lo
aveva ancora. E la necessità di legittimarlo veniva, dunque, prima d’ogni altra
cosa.
Questo scambio tra partito e leader è funzionale a un sistema nel
quale il “moderno principe” di un tempo (cioè il partito) possa
continuare a esercitare un ruolo nell’approccio alle grandi questioni
politiche, nella traduzione dei programmi in subcultura diffusa, nella
selezione della classe politica e delle rappresentanze istituzionali e, in
cambio di tutto ciò, sia disponibile a cedere il suo scettro, arrestando alle
soglie del governo le sue competenze e le sue pretese. Si verrebbe così a configurare
un sistema politico che funzioni come mai è accaduto nell’Italia del secondo
dopoguerra quando, rispetto allo schema descritto, i partiti sono sempre
risultati o troppo forti o troppo deboli.
E’ quest’ultimo il rischio che veramente incombe sul futuro dei
partiti. Che non si evita né dotandoli di un robusto contorno di tessere né
costringendoli a una primaria “tanto liberatoria”. Oggi, infatti, i
partiti possono facilmente essere bypassati da reti, lobbies, gruppi di
pressione, organizzazioni più o meno legali radicate sul territorio. Gli
happening inscenati da Beppe Grillo rappresentano, in tal senso, nient’altro
che la punta dell’iceberg.
Per questo, se veramente si vorrà evitare questa deriva, bisogna
rassegnarsi a riconoscere per legge il ruolo pubblico dei partiti, imponendo
loro vincoli e trasparenza ma, d’altro canto, assegnandogli poteri effettivi.
Quel che oggi più si avvicina a ciò che si chiede per i partiti è
la loro possibilità di scegliere (almeno in parte) i propri rappresentanti
nelle istituzioni. Non a caso c’è chi, agitando il drappo consunto della
partitocrazia, vorrebbe togliere loro questa prerogativa reimmettendo le
preferenze. Si provi a farlo. Ma non ci si venga a lamentare se le campagne
elettorali torneranno a costare milioni di euro e, alla fine, verranno eletti
candidati vicini ai potentati, legittimi o illegittimi che siano.
C’è forse un’altra strada: sottomettere attraverso la legge la
vita interna dei partiti (compresa la scelta dei candidati) a garanzie di
trasparenza e correttezza ma, d’altro canto, riconoscere una volta per tutte il
loro insostituibile ruolo pubblico in quelle attività che presidiano una fase
cruciale del processo politico. Si tratta di una vecchia aspirazione liberale,
contro la quale si sono scagliati, alleati tra loro, il residuo anti-sistemico
del vecchio Pci, intimorito che qualcuno potesse intrufolarsi nei suoi affari
interni e quello anti-statale proprio di tanta parte del cattolicesimo politico
italiano.
Oggi il problema torna ad essere attuale, non privo di una nuova
complicazione: come i partiti possano dare e richiedere garanzie attraverso la
legge, senza che ciò si trasformi in ulteriore occasione per magistrati col
complesso d’onnipotenza per condizionare l’ordinaria dialettica politica. Solo quando
questo nodo sarà risolto – a seconda di come sarà risolto – si potrà decretare
se le tessere siano utili o meno. Esse non sono un problema e tanto meno il
problema. Ferrara, un tempo, le avrebbe definite “una
sovrastruttura”.