Nel caso Moro conta di più la scena del dietro le quinte
11 Maggio 2008
«Roma, 1978. Dietro le quinte del
sequestro Moro». Così recita il sottotitolo del libro Eseguendo la sentenza di Giovanni Bianconi, giornalista giudiziario
de «Il Corriere della Sera». Come troppo spesso accade nella scelta dei titoli,
il marketing editoriale si impone sugli aspetti contenutistici, fino a
stravolgere il vero senso di una pubblicazione. Non si vogliono avanzare
ipotesi su quali dei molteplici aspetti del «caso Moro» Bianconi volesse
realmente privilegiare nel momento in cui ha scelto di scrivere questo
appassionante ed appassionato volume, a metà strada tra il reportage
giudiziario, il libro di approfondimento storico-giornalistico e il pamphlet polemico. Quella che si vuole
avanzare è solo una modesta chiave di lettura di questo testo che possa così
permettere di accostarsi al «caso Moro» restando in equilibrio tra il piano
della storia e quello della pietas umana. Cioè tra l’imprescindibile necessità
di non espungere i drammatici 55 giorni del sequestro dal contesto di politica
interna ed internazionale dell’Italia di fine anni Settanta e l’altrettanto
decisiva necessità di costruire una sorta di lettura idealtipica del sequestro
terroristico a fini politici, delle sue ricadute profondamente umane e
dell’intrecciarsi tra piano della politica e piano dei rapporti personali.
È da questo duplice punto di
vista che il libro di Bianconi diventa estremamente più interessante di quello
che il sottotitolo, ammiccando a retroscena segreti e scoop
storico-giornalistici, vuole lasciar intendere.
Innanzitutto la dimensione
storica e la centralità del tema della debolezza dello Stato italiano di fronte
all’atto terroristico. Il «caso Moro» simboleggia l’esaurirsi della capacità
espansiva e propulsiva dello Stato repubblicano uscito dalla tragedia bellica, ricostruito
politicamente ed economicamente da una classe dirigente democristiana,
anticomunista, saldamente atlantista ed europeista. Lo sgretolarsi delle
certezze del periodo degli anni del centrismo e del centrosinistra nel libro di
Bianconi assume una forma particolare. Certamente c’è la debolezza della Dc,
partito della trattativa per eccellenza, che si trova costretto a diventare il
partito della fermezza assoluta. Ancora più evidente è il paradosso del Pci
appena entrato, dalla porta di servizio, nel novero dei partiti di governo e
impegnato nello spasmodico tentativo di difendere questa posizione tramutandosi
nel partito dell’«ultra-fermezza». Infine l’atteggiamento quasi isterico del
Psi, che si dibatte e finalmente trova un ruolo: quello del pungolo nei
confronti dei due partiti maggiori; Craxi sembra fiutare l’aria e assumere il
ruolo del «partito della trattativa», finendo per incarnare il più paradossale
dei comportamenti. Ma oltre a tutto ciò, il crollo dell’edificio statale è
simboleggiato dalla condotta dilettantesca delle indagini e dalla miriade di
particolari che Bianconi porta per descrivere i quotidiani movimenti di alcune
decine di terroristi che circolano indisturbati in quella che dovrebbe essere
una Roma blindata.
Ebbene, in questo affresco storico la vera fine della Prima
Repubblica arriva almeno quindici anni prima delle monetine lanciate a Craxi
all’uscita dell’Hotel Raphael. L’inabissarsi dell’edificio repubblicano è tutto
condensato in quel summit all’aperto, in Via Barberini, dove i vertici delle Br
romane discutono delle sorti del prigioniero il 3 maggio 1978. Di pomeriggio,
camminando in maniera continuata e nervosa tra via Sistina e Piazza Barberini.
Nell’indifferenza dei passanti, ma soprattutto nell’aperta sfida, sfacciata e sfrontata
agli apparati di sicurezza di quello Stato che, con il rapimento del leader Dc,
sembra davvero aver subito il colpo di grazia finale.
Veniamo al dramma umano, quello
dell’intrecciarsi tra dimensione personale e politica del sequestro. Da questo
punto di vista fondamentali sono le tre figure di Giuseppe Pisanu, Eleonora
Moro e Benigno Zaccagnini.
Innanzitutto Pisanu, il più
stretto collaboratore del segretario Zaccagnini, capo della sua segreteria
politica. I passaggi iniziali della narrazione di Bianconi, filtrati dallo
sguardo dell’appena quarantenne politico sardo, umanizzano la vicenda e quasi
la de-storicizzano. Pisanu ne è certo, «qualunque mossa dello Stato deve essere
preventivamente concordata con la famiglia dell’ostaggio» (p. 45). Appena la
notizia del sequestro diventa di dominio pubblico, Pisanu è al centro della
vicenda (e vi resterà per tutti i 55 giorni). Il politico travolge l’umano, il
pubblico rompe gli argini e deborda nel personale, il turbinio delle
riflessioni e delle ricadute è incontrollabile: soppesare l’impatto
dell’«attacco allo Stato», decidere per le prime dichiarazioni, i primi
incontri eppure… Pisanu, giunto a casa Moro con Zaccagnini, sembra sopraffatto,
svuotato e riceve l’inaspettato incoraggiamento di Eleonora Moro. È in questo
significativo incontro, a poche ore dal tragico agguato di via Fani, con i
cadaveri degli uomini della scorta ancora caldi, che il giovane politico di
Sassari comprende che lo spazio per la dimensione personale del tragico
sequestro, così come si è aperto è già chiuso. La luce è subito spenta, il buio
sarà costante lungo i drammatici 55 giorni, un’interminabile e monotona notte
che separa gli spari di via Fani da quelli di via Montalcini. Le esigenze del
«politico» si sono immediatamente imposte, forse anche Eleonora Moro lo ha
compreso, ma lotterà per lasciare aperto lo spiraglio della salvezza, per lo
spasmodico desiderio di scindere condanna politica da condanna personale.
Eleonora Moro è il secondo
emblema di questa drammatica condizione. Lei, personaggio privato per
eccellenza, lei che ha concordato con il marito il ferreo codice di condotta
che non prevede incontri di lavoro nell’attico di via del Forte Trionfale, si
trova progressivamente a doversi fare voce pubblica e politica degli angosciati
appelli che giungono dalla prigione del popolo dove è barbaramente rinchiuso il
marito. Deve continuamente farsi carico del fardello di dolore personale e
privato e trascinarlo nello spazio della politica, per sollecitare i colleghi
di partito del marito a mosse che, nelle migliori delle ipotesi, saranno
inutili e nelle peggiore, decisive per la sorte del congiunto. È un compito
ingrato, ma soprattutto è un ruolo per il quale apparentemente non è preparata.
Eppure lo svolge in maniera ferma, senza una sbavatura e senza una lacrima.
Opponendo alla fermezza dovuta e vacua del potere politico in carica, quella
per nulla scontata di chi è lacerata dal dolore e avrebbe tutto il diritto di
abbandonarsi a reazioni scomposte. È Nora Moro che tra i primi giunge in via
Fani e indica agli inquirenti i nomi dei componenti della scorta barbaramente
uccisi. È sempre lei che, giunta la notizia del ritrovamento del corpo di Moro%2C
«ancora una volta trattiene le emozioni, fronteggia le incombenze immediate tra
facce sbigottite e pianti trattenuti» (p. 397).
Il definitivo simbolo della
drammatica contraddizione tra dimensione pubblica e dolore privato è Benigno
Zaccagnini. Divenuto nel 1975 il braccio, quasi inconsapevole, della cosiddetta
«terza fase» dell’operato moroteo, egli si trova costretto ad incarnare il
ruolo di vittima e involontario carnefice. Quel destino scritto: sarà lui a
dover portare la croce in pubblico, sarà lui a dovere per il resto dei suoi
giorni interrogare il suo ego e convivere con i suoi rimorsi. «Non credo di
poter dire parole adatte in questo momento. Non ce ne sono, non le trovo» (p.
401), così Zaccagnini costretto a parlare, visto il suo ruolo istituzionale, a
pochi minuti dal ritrovamento del corpo in via Caetani. Il politico di
professione, colui che vive di esercizi di oratoria si scopre definitivamente
solo, impotente e senza parole di fronte alla morte dell’amico, alla scomparsa
del leader politico. Da un lato egli vive a pieno la responsabilità della quale
tre anni prima lo stesso Moro lo ha investito. Traghettare il partito verso una
fase di riforma interna e soprattutto dirigere il Paese verso una seppur
embrionale logica di alternanza. Dall’altro lato Zaccagnini è il segretario
quasi per caso, che difficilmente avrebbe raccolto attorno a sé il consenso
necessario senza l’appoggio di Moro. Il partigiano-bianco che ha rischiato la
vita durante la lotta di Liberazione è costretto a dichiarare: «Vicende dure
come queste non ne ho mai vissute» (p. 378).
Ma è proprio nella sua
malinconica figura che piano della storia, piano della politica e straziante
dimensione personale sembrano per un attimo trovare un punto di conciliazione.
Ma poi, inevitabili, tornano ad affollarsi gli interrogativi. Di fronte alle
ragioni della politica, dove si ferma la pietas umana? È lecito trattare con
chi tiene in ostaggio un esponente istituzionale? Trattare con la cieca furia
terroristica salva vite umane o erode dall’interno l’autorevolezza di uno Stato
democratico? Riflettere su questi interrogativi, più che muoversi alla ricerca
di improbabili e fantasiose trame cospirative, può essere un utile tributo alla
memoria dello statista, del padre di famiglia, del marito e del nonno che al di
là di ogni speculazione politica, di certo non meritava la folle umiliazione di
quei 55 drammatici giorni.
G. Bianconi, Eseguendo la sentenza. Dietro le quinte del sequestro Moro,
Einaudi, 2008.