Nel massacrare il Festival di Sanremo c’è il vizietto italiano dello snobismo
28 Febbraio 2010
Lo snobismo è deviazione dello spirito: non l’ha detto un fabbricatore di massime come Flaiano; è soltanto una premessa indispensabile per chiarire che una critica a una cosa facilmente criticabile assume credibilità solo se il rimbrotto non è iperbolico (e autocompiaciuto); se trova fondamento nella realtà.
La cosa facilmente massacrabile è il Festival di Sanremo, quest’anno giunto all’edizione della maturità avanzata. Dodici milioni e mezzo di italiani pare abbiano visto l’ultima serata, sigillo di una sessantesima annata che non ha deluso con un trend vicino agli undici milioni di spettatori di media. Non pochi e, soprattutto, coraggiosi. Perché? Si provi a dichiarare, ancora di più se tardo-adolescenti, che per vedere Sanremo la discoteca è rimandata al sabato successivo. E’ certezza lapalissiana: si viene coperti da un coro di improperi che demolirebbero la più granitica delle personalità. Non fa piacere, si pensa di essere dei marziani con tre narici, ma come gli “scapigliati” alla fine ci si appropria con orgoglio dell’etichetta di sanremesi a prescindere. E’ una messe di telecomandi che non scambierebbe la sagra festivaliera con la pista da ballo più ganza. O, se si è palati fini deviati, con l’unica tappa italiana del miglior mimo d’Armenia.
Serve Personalità per vedere Sanremo, ma una volta avvezzi al pubblico ludibrio, si è fieri di essere i più titolati a dispensare lodi e stroncature. A patto, però, che le incensature non siano dovute ad entusiasmo acritico, nel segno del “pagherei per essere là in quei giorni qualsiasi minestra propongano”, e che le bastonate non siano motivate – appunto – da snobismo incondizionato. Gli italiani col naso tirato all’insù non lo vedrebbero neanche sotto minaccia di taglierina [precludendosi – pregiuzialmente – la possibilità di ascoltare pezzi di fattura pregevole (non erano tali, cari amici che frequentate solo il Jazz club di Saint Tropez, le canzoni degli Avion Travel, di Max Gazzè, di Malika?) e di godere di momenti di spettacolo di gran pregio], ma i detrattori sistematici fedeli alla visione ci sono e sarebbe bene non si facessero così male.
Non è, banalmente, che in medio stat virtus, perché quest’anno c’era materia per dire che questo Festival meritava la sufficienza a stento. Non tanto per i cantanti, quanto per la conduzione e per la costruzione complessiva sciatta da urticare. Non si reggeva più la cappa monocorde degli esperti di faccende musicali e televisive (per una volta sia beato Aldo Grasso) della Clerici esemplare “normalista”, una che gigioneggia con le tette ingovernabili e le camminata goffa ma che non ha un filo di imbarazzo quando c’è da chiedere più miliardi con la disinvoltura (in tempi di poche lenticchie nel piatto) di un qualsiasi inseguitore di palla.
Antonella non sbaglia però solo per motivi “populistici”; la signora dei fornelli fa una pessima figura nell’avallare la scelta della splendida solitudine sul palco; di ospiti che invece di contrastare l’immagine della sagra strapaesana la rafforzano, facendola naufragare tra Cazzanate e sermoni di Lippi; di dialoghi che nulla hanno a che fare con la virtù della semplicità tanto sono sciapi. Ma sui mezzi miliardi incassati, per quanto ne voglia di più, la Clerici non sputa e visto il trionfo di ascolti mai farà una critica al suo Sanremo così “monoliticamente” apprezzato.
Non erano le canzoni il punto debole di questo Festival, che merita una quasi sufficienza per l’eccellente serata del giovedì, quando la migliore argenteria della musica italiana (da Carmen Consoli a Fiorella Mannoia, da Massimo Ranieri a Riccardo Cocciante) ha reinterpretato con raffinatezza popolare i successi dei vecchi sanremi. Non erano i cantanti il tallone d’Achille di questa edizione perché, a varie tinte, ricorderemo le esibizioni di Irene Grandi, Malika, Noemi, Cristicchi, Irene Fornaciari, Nina Zilli. Gran parte del prodotto Sanremo 2010 però è da buttare, umiliato come è stato da un podio farsesco (per ragioni di pudore si chiede cortesemente di non tirare in ballo, per giustificare il pronunciamento per televoto – drogato -, la categoria della “volontà popolare”) e da un vestito lacero.
Sanremo è solo quello della Consoli che rivisita “Grazie dei fiori” o di Noemi che dà forma alle note con voce non biascicata. Al di fuori della gara ci può essere spazio per Whitney Houston o il Cirque du Soleil, non per regine e analfabeti. Ha ragione Mina allora quando, con buon senso non narcisistico, scrive su questo Festival: “il nazional-popolare non è di per sé un orrore ma quando si mischia con il provincialismo e l’incultura a tutti i costi diventa insopportabile e immorale”.
Ha torto, invece, il quotato uomo di spettacolo che ha costretto a trasformare l’intervista inizialmente pensata (inutilizzabile per povertà di contenuti) in questo pezzo perché – caricatura snobistica – ha dichiarato che Sanremo non lo farà mai giacché troppo raffinato (testuale) ed evidentemente impegnato a citare Musil e Kafka (si provava a interrogarlo su Morgan e la Clerici ma lui sempre con Musil e Kafka…). Come dire che il Grande Fratello fa schifo perché Aristotele ha scritto belle pagine di filosofia. Dio ci preservi dai brutti sanremi e dalle masturbazioni intellettuali.