Nel Risorgimento italiano c’era il seme dell’autodeterminazione

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Nel Risorgimento italiano c’era il seme dell’autodeterminazione

24 Ottobre 2010

Si ritiene comunemente che il principio di autodeterminazione dei popoli, il diritto riconosciuto a una comunità di organizzarsi in forme autonome e dotarsi di un governo indipendente, sia un’acquisizione del XX secolo. Innescata dal wilsonismo e dalla dissoluzione degli imperi europei alla fine della prima guerra mondiale e consacrata, dopo la seconda, dal processo di decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia. In realtà quel principio ha natali meno esotici e una storia molto più lunga e tortuosa, in cui il Risorgimento italiano occupa una posizione centrale.

Tanto per cominciare bisogna spostare le lancette indietro di circa un secolo. L’anno è il 1848, il posto è l’Europa, l’atmosfera è sospesa tra delusione e speranza di rinnovamento. La rivolta dal basso delle nazionalità oppresse viene soffocata dalle forze ottuse della Restaurazione, ma il seme della libertà è piantato, l’ordine del congresso di Vienna e della santa alleanza comincia a disgregarsi. In Piemonte, in Austria, nel Regno delle Due Sicilie re e imperatori concedono la costituzione. I rappresentanti degli Stati tedeschi si riuniscono per la prima volta in una Dieta a Francoforte. Papa Pio IX apre alle riforme e illude i liberali prima dell’avvento dell’effimera Repubblica Romana di Mazzini e del ritorno indispettito all’oscurantismo.

In Francia si afferma la repubblica ed emerge la figura di Luigi Napoleone, un affascinante “avventuriero della politica” avvolto nell’aura magica dello zio, indimenticato imperatore dei Francesi. Eletto presidente, nel giro di pochi anni “Napoleone il piccolo” (secondo la definizione di Victor Hugo) accentra nelle proprie mani la vita politica nazionale trasformando la repubblica in un nuovo impero e rilancia le quotazioni della Francia in Europa. Con una tattica lucida e spregiudicata, stretto tra le eredità contrastanti di Napoleone il grande (quella dell’illuminato primo console e quella del dispotico imperatore), tra le parole d’ordine del bonapartismo e la visione di una nuova grandeur francese, Napoleone III concepisce una politica estera basata su un singolare compromesso tra mutamento e conservazione.

“Prevenire la rivoluzione dando legittima soddisfazione ai bisogni dei popoli, e garantendo e proteggendo i principi e i diritti della loro nazionalità”: questa è la linea. La Francia riscopre gli ideali più nobili che hanno animato le vittorie napoleoniche, proclama il diritto dei popoli all’indipendenza, innalza il vessillo delle nazionalità, incita al risorgimento delle nazioni per porre l’Europa liberata sotto la sua egida. Oltre all’amor di pace e alla missione di civiltà, conta ovviamente l’egoismo nazionale, tanto più che l’evoluzione “sponsorizzata” da Napoleone III si presenta come un accorgimento necessario per salvare il salvabile, come un argine a difesa dell’ordine sociale e un antidoto contro lo squasso della rivoluzione dal basso. I popoli sono piuttosto le aristocrazie e le borghesie dei popoli, in una visione rigorosamente elitaria e censitaria. Ma il messaggio lanciato all’Europa è dirompente: benzina versata nel motore della storia.

Il primo banco di prova per Napoleone III è la guerra di Crimea. Negli auspici dell’imperatore lo scontro tra Francia e Inghilterra da una parte e la Russia che ha invaso i principati di Moldavia e Valacchia, lanciando l’assalto al decadente Impero Ottomano, può essere “la rivoluzione attesa”. Può scatenare la ribellione delle nazionalità oppresse contro lo zar, incrinare il primato morale della Russia sul continente, cambiare la carta dell’Europa orientale e non solo. Invece si limita a ridimensionare le pretese russe sul Mar Nero e gli Stretti e a propiziare, di lì a poco, l’indipendenza della Romania.

L’occasione del riscatto è offerta qualche anno dopo dalla “questione italiana”. Negoziando con Cavour e poi combattendo a fianco del Piemonte sabaudo, Napoleone III si impegna a favorire la nascita di un regno dell’Italia Settentrionale, che risponda al “grido di dolore” dei popoli del Lombardo-veneto e sancisca l’influenza della Francia su tutta la regione subalpina. L’Italia unita è  immaginata come una confederazione, guidata magari dal papa e sottoposta al protettorato francese. Il piano sembra funzionare, ma quando si accorge che Cavour non si accontenta del nord e rischia di scatenare una guerra europea, l’imperatore lascia l’opera a metà e si ritira. Il principio di nazionalità è sacrificato alla ragion di Stato: “nessun grande Stato alle nostre frontiere”, recita un principio, pienamente rispettato, della politica estera francese.

Persa l’amicizia della Francia, tuttavia, Cavour ottiene l’appoggio dell’Inghilterra, se non nella forma di un concreto sostegno militare, almeno in quella di una preziosa protezione diplomatica. E sulla base degli stessi presupposti che avevano ispirato Napoleone III. Nell’ottobre del 1860 – mentre l’esercito piemontese si ricongiunge a Garibaldi attraverso lo Stato Pontificio, mentre si prepara l’assedio al re delle Due Sicilie asserragliato a Gaeta e le popolazioni dell’Italia centrale chiedono l’annessione – Francia, Prussia e Russia prendono le distanze dal Regno di Sardegna. In una nota all’ambasciatore a Torino, invece, il ministro degli esteri inglese Lord John Russel assume una posizione decisa e di tutt’altro segno. “Il governo di Sua Maestà”, scrive, “sostiene che le popolazioni del Regno di Napoli e dello Stato Pontificio sono i migliori giudici dei propri interessi: il governo di Sua Maestà non si sente di dichiarare che le popolazioni dell’Italia meridionale non avevano buoni motivi per negare la propria obbedienza ai loro governi. Il governo di Sua Maestà, dunque, non può biasimare il re di Sardegna per averle aiutate (…)  E’ difficile credere che il papa e il re delle Due Sicilie godessero dell’amore del loro popolo”.

Si tratta, come è stato detto, di uno dei più famosi dispacci della storia della diplomazia inglese: il diritto di un popolo a scegliere il governo che più corrisponde ai suoi interessi e alle sue aspirazioni vi è affermato per la prima volta. Nel solco della tradizione liberale, con tutti i limiti di una visione ottocentesca e con due fondamentali ipocrisie. Innanzitutto l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli nasconde, sia nel caso della Francia che in quello dell’Inghilterra, un disegno di egemonia e un ben ponderato calcolo politico. E’ tanto un atto di liberalità quanto una clava da scagliare contro le potenze conservatrici della vecchia Europa per eroderne la supremazia. In più presuppone una differenza tra “popoli di serie A” e “popoli di serie B”: riconosciuto ai popoli europei (con la significativa eccezione dei Polacchi, degli Irlandesi e del mondo slavo), non è nemmeno lontanamente contemplato per i domini coloniali, eclissato dalla logica disumana dello “spazio vitale” e dalla favola della “missione civilizzatrice dell’uomo bianco”.

Quanto alle istituzioni che dovrebbero scaturire dalla libera volontà popolare, sia Napoleone III che Lord John Russel deplorano gli eccessi della rivoluzione e dei regimi democratici; gli Inglesi, in particolare, prediligono le “venerate forme della monarchia costituzionale”, specialmente se associate alla guida di una dinastia antica e glorioso, com’è quella dei Savoia in Italia. Il principale limite del diritto dei popoli nella concezione liberale ottocentesca risiede però nelle modalità di espressione della volontà popolare. L’Italia avviata all’unificazione opta per i plebisciti, consultazioni popolari dirette rispolverate da Napoleone III per cambiare la costituzione francese scavalcando il parlamento e poi per farsi proclamare imperatore. Le consultazioni indette per decidere l’annessione dell’Italia centrale e meridionale al regno di Sardegna hanno indubbiamente il pregio di disconoscere l’idea della sovranità per diritto divino in favore del principio per cui l’autorità è legata al consenso; ma mostrano lo stesso difetti evidenti. Il voto è pubblico e limitato ai cittadini maschi che abbiano compiuto ventuno anni, appena il 20% della popolazione complessiva. Pochi mesi più tardi, del resto, le elezioni del primo parlamento nazionale chiameranno alle urne i soli cittadini maschi di età non inferiore ai venticinque anni, capaci di leggere e scrivere e accreditati di un reddito annuo di almeno quaranta lire. Circa il 2% degli abitanti del neonato Regno. Benché compiuta in nome del popolo, la “rivoluzione italiana” resta una rivoluzione d’élite.