Nel Veneto in ebollizione si gioca anche il futuro della Lega

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Nel Veneto in ebollizione si gioca anche il futuro della Lega

09 Febbraio 2009

 

Mentre si sviluppa il conflitto istituzionale sul caso Englaro, la crisi continua a mordere. Il governo la tallona con provvedimenti sociali, ha impostato su banche, auto ed elettrodomestici una strategia di aiuti molto flessibile e poco protezionistica, dovrebbe riuscire a mettere in moto meglio un po’ di opere pubbliche, alla fine non può ragionare strategicamente che su un contesto europeo non facile: Inghilterra e Germania vanno peggio del previsto. Il crescere di alcune proteste in questa fase è inevitabile. Al di là degli scontri a Pomigliano d’Arco, è interessante notare come l’epicentro di questi malumori sia innanzi tutto il Nord-est, soprattutto quello profondo tra Treviso e Belluno. Da lì partono le iniziative degli artigiani che chiedono revisioni nel sistema degli studi di settore per la verifiche fiscali, da lì i movimenti più duri dei sindaci che rifiutano il patto di stabilità definito da Giulio Tremonti. E’ nelle punte alte dell’economia, nelle aree che più hanno vissuto una stagione di benessere che si sente maggiormente la crisi anche rispetto a zone del nostro territorio che con le difficoltà convivono da più tempo, come non solo il Sud ma anche la Torino della Fiat.

Ma non siamo di fronte solo a un fenomeno economico-sociale, vi è anche un problema di classe dirigente. Il Veneto, soprattutto quello profondo, è stato per larga parte del Secondo dopoguerra elemento centrale della governabilità italiana. Non per nulla alcuni leader democristiani decisivi erano di quelle parti, da Mariano Rumor ad Antonio Bisaglia. Nel tenere insieme quella parte d’Italia era fondamentale il ruolo della Chiesa che esprimeva bene i sentimenti di popolazioni ancora in larga parte contadine e le collegava al partito dello scudocrociato, architrave della Repubblica. Sono due fenomeni intrecciati che portano alla crisi di questo sistema: la trasformazione economico-sociale del territorio, che diventa sede delle più spericolate e intraprendenti piccole, medie e anche grandi imprese (si pensi ai Benetton o alla Luxottica) e la crisi politica della Prima repubblica. Di fronte a questo duplice processo è in Veneto che nascono le prime radicali spinte localistiche (con una forte componente secessionistica), essenzialmente sulla questione fiscale. Al contrario che in Lombardia queste spinte – che pure generano liste con il leòn della Serenissima in grado di prendere un sacco di voti – non riescono a trovare una personalità carismatica come quella di Umberto Bossi che le unifichi: alla fine prevale lo spirito anarcoide e individualistico prodotto anche di come la Repubblica di Venezia (un sistema di potere rigorosamente oligarchico) aveva governato per secoli il suo contado. Quando questo “contado” attenua il rapporto religione-politica e si esalta per il suo progresso economico, sono le caratteristiche un po’ anarcoidi, di chi non ha grandi abitudini all’autogoverno, che prevalgono.

La fortuna di Bossi nel costruire un movimento di tutto il Nord – e quindi assai pesante a livello nazionale – è data anche da questa attitudine di fondo del Veneto di essere privo di una leadership anche se poi ha prodotto ottimi quadri di governo come Luca Zaia oggi ministro dell’agricoltura o Flavio Tosi sindaco di Verona. Ma tutti con le caratteristiche dei numero due più che dei leader carismatici. E’ questa storia che ha consentito il potere indiscusso dei lombardi (prealpini in particolare) sulla Lega Nord

Questo tipo di processo politico ha consolidato uno stile di guida del movimento leghista in Veneto che di fatto asseconda gli umori della gente più che guidarli con la necessaria razionalità. E quando arriva una stretta – come di questi tempi – le spinte tendono ad andare un po’ dove vogliono loro, abbastanza indifferenti agli equilibri politici ed economici nazionali (o anche solo “settentrionali”).

D’altra parte questa è anche una bella assicurazione per Bossi, perché un Veneto capace di fare politica unitariamente rappresenterebbe una sfida per una Lombardia che è assai più articolata culturalmente, si consideri solo il ruolo e il peso di Milano rispetto a quello minimo della Venezia dei giorni nostri rispetto al resto della regione.
Proprio questa considerazione fa ritenere che tutti i pettegolezzi messi in giro sul fatto che Bossi vorrebbe la presidenza della Regione veneta, che utilizzerebbe le elezioni europee per vedere se porta a casa più voti Zaia o Tosi in modo poi da scegliere così il successore di Giancarlo Galan, tutte queste voci o considerazioni appaiono contrastare con una misura di prudenza che sinora il leader della Lega Nord ha sempre tenuto assai presente: non avere mai un uomo forte che rappresenti tutto il Veneto.