Nella guerra della sinistra contro il Cav. anche avere una banca ha un’etica

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Nella guerra della sinistra contro il Cav. anche avere una banca ha un’etica

25 Settembre 2009

Francesco Forte su l’Occidentale del 22 settembre u.s. ha rivolto “Dieci domande alla De Gregorio e a Ezio Mauro sulla banca di D’Alema’, con preghiera, nel PS di girarle a Marco Travaglio e Antonio Padellaro. Le domande “hanno a che fare con il rinvio a giudizio presso il tribunale penale di Milano, dello stato maggiore attuale e del recente passato di Unipol, la società di assicurazione della Lega delle cooperative per i reati di aggiotaggio, insider trading ed ostacolo all’autorità di vigilanza, compiuti nella scalata alla BNL, bloccata successivamente dalla Banca di Italia, dopo che il governatore Antonio Fazio si era dimesso, perché accusato di aver favorito tale operazione e quella parallela del Fiorani, sulla banca Antonveneta”. Sorvolo su quelle che riguardano il doppiopesismo della stampa italiana, la libertà d’informazione, la liceità di mettere in piazza notizie riservate e penalmente irrilevanti etc. e vengo alla domanda cruciale, la settima. “Nel corso della telefonata del 18 luglio 2007 di Giovanni Consorte a Piero Fassino per tenerlo al corrente della conquista della Bnl, il segretario del partito diessino, sentito che oramai Unipol, con il suo gruppo di soci, aveva raggiunto il 51,8 per cento di Bnl, ha esclamato “allora abbiamo finalmente una banca”. Ed ecco la domanda. E’ corretto che un partito utilizzi una compagnia di assicurazione della Lega delle Cooperative per ottenere il controllo di una grande banca di carattere nazionale e internazionale?”.

Che i destinatari della lettera reagiscano con un fin de non-recevoir può considerarsi scontato. Sarebbe sbagliato, però, per spiegare il silenzio sicuro, ricorrere a valutazioni moralistiche, all’argomento delle ‘facce di bronzo’, alla parabola della pagliuzza nell’occhio del nemico, ai biechi interessi di una parte cospicua dell’establishment mortalmente avversa al centro-destra etc. Quelle spiegazioni, per carità, sono fondate specie se si guardano bene certe facce livide che sembrano dar ragione al vecchio Lombroso che nei volti vedeva dipinta l’anima dei tipi umani da lui studiati. E tuttavia col binomio “moralismo e/o malafede” si resta alla superficie del fenomeno. Non si comprende, ad esempio, perché le provocazioni di Forte e la sua onesta denuncia del giustizialismo come “retaggio sovietico” non solo non scalfiscano le De Gregorio, i Mauro, i Travaglio e i Padellaro ma non abbiano alcuna presa su quell’ “area di opinione, certo minoritaria, però molto scaldata” e “capace di odiare e di amare con intensità sorprendente” costituita dai lettori di ‘Repubblica’ che hanno fatto pervenire la loro solidarietà agli organizzatori della manifestazione in difesa della libertà di stampa – v. l’illuminante florilegio raccolto da Giampaolo Pansa nel lungo articolo,’Odiosi e agguerriti: il partito Repubblica’ pubblicato su ‘Libero’il 22 settembre. Su questa minoranza non trascurabile che si sente assediata e avverte il pericolo del fascismo che avanza – ‘Vogliono cancellare quel che resta della nostra povera e zoppa democrazia’, scrive ad esempio tal Lorenzo Fiorelli – i dieci quesiti di Forte, si può star sicuri, non lasceranno alcuna traccia. Ancora una volta: malafede? Falsa coscienza? Sarebbe tranquillizzante se fosse così ma purtroppo i mali del mondo più che dalle mene dei malvagi derivano, spesso, dalle ‘buone intenzioni’ di cui sono districate ‘le vie dell’inferno’. No tra i lettori di ‘Repubblica’, dell’’Unità’, di ‘MicroMega’(e rivistucole valvassine) ci sono fior di galantuomini, onesti padri di famiglia, integerrimi professionisti. Perché sono tutti preda delle passioni che, annotava nelle Considérations  Montesquieu, "fanno sentire ma non fanno vedere?". Per venirne a capo, bisogna portarsi fuori del “campo di gioco” e addentrarsi nelle nuvole – che poi non sono affatto tali – di quegli ‘stili di pensiero’, di quelle ‘ideologie collettive’ che tanto intrigavano un filosofo come Augusto Del Noce, un uomo candidamente svagato e ‘astratto’ – come sanno quanti l’hanno conosciuto e frequentato–, un pensatore acutissimo, capace di andare oltre le apparenze del dibattito politico e culturale del momento e di individuare linee di tendenza di ‘lunga durata’, che i suoi interlocutori e avversari “realisti” non riuscivano a vedere. Ebbene ponendosi sul piano delnociano – pur senza condividere, è il mio caso, i presupposti metafisici del cattolico tradizionalista – l’indifferenza degli enragés della politica italiana e dei loro ‘supporter’ nella ‘società civile’, per nulla scossi dalle domande di Forte, può venir compresa solo ‘concettualizzando’, per così dire, talune esperienze storiche che da, trecento anni a questa parte, hanno segnato, nell’Europa continentale e specialmente in Italia, l’immaginario collettivo, la percezione della realtà, la valutazione di costumi e istituzioni.

 Per semplificare, si può dire che gli avversari del centro-destra – non mi riferisco agli’avversari laici’che legittimamente denunciano quanto, a loro avviso, è sbagliato nella politica governativa ma ai portatori di ‘antiberlusconismo teologico’ – come i cattolici conservatori, da essi aborriti, si richiamano ai valori che stanno a fondamento della ‘civiltà liberale’ – rispetto delle forme, divisioni dei poteri, separazione pubblico/privato etc. – visti come strumenti di guerra, teste d’ariete, per penetrare nella fortezza nemica non come conquiste permanenti, stelle polari destinate a guidare per l’innanzi la politica dei governi, siano essi di destra o di sinistra. Per questo non vengono minimamente sconvolti dall’effetto boomerang – puntualmente registrato da Forte – delle armi da loro impiegate: le “regole”, come le leggi italiane di cui parlava Gaetano Salvemini, si applicano ai nemici ma si interpretano per gli amici. Ripeto, in tutto questo non c’è necessariamente una perversione morale ma qualcosa di assai più preoccupante ovvero quello spirito di crociata laica che, nell’Italia degli anni quaranta, registrò il suo momento più alto nel "gramsciazionismo" piemontese (linea Gobetti/Galante Garrone). Per metterlo a fuoco, può essere utile rifarsi a due episodi – tra loro molto diversi – della storia occidentale: l’ascesa del cristianesimo in età tardo-imperiale e la penetrazione dell’illuminismo nella Francia d’ancien régime. In entrambi i casi, i portatori di idealità superiori adottarono una politica ‘entrista’ consistente nel ‘piazzare’ i loro uomini in tutti quei luoghi del potere – culturale, istituzionale, economico – che rivestivano un ruolo strategico per il passaggio da una comunità profondamente corrotta e irredimibile a una società spiritualmente redenta. Pur di raggiungere influenza e visibilità, tutti i mezzi erano leciti, anche il barare al gioco dal momento che il ‘gioco’ non era quello loro ma quello degli antichi despoti. L’essenziale era la capacità/possibilità di sensibilizzare alle ‘idee nuove’ le vittime della superstizione e della tirannide e, a tale scopo, la conversione delle aristocrazie – imperiale e feudale – ovvero dei ‘poteri forti’ del tempo, risultava assai più utile della conversione delle plebi, secondo il principio che vede prioritaria la formazione dei capi giacché, una volta che questi abbiano conquistato il potere, come diceva il generale De Gaulle “l’intendance” (l’Amministrazione, la Burocrazia, le stesse Istituzioni) “suivra” e, con l’intendenza, le truppe della gente meccanica e di piccolo affare.

Leggendo l’articolo di Forte mi è venuto in mente, per una contorta associazione di idee, un episodio di molti anni fa. Conversando con un amico, persona molto perbene, iscritto al PCI, gli facevo notare che all’Università (già allora siamo negli anni settanta) poteva capitare a un professore cattolico o conservatore di reclutare un assistente ateo o marxista ma non il caso inverso, di un professore laico (anzi laicista), marxista o azionista disposto a sostenere concorsualmente un allievo con una filosofia etico-politica diversa dalla sua. L’amico mi guardò perplesso come a dire:”e cosa c’è di male in tutto questo?”. Nella sua visione del mondo, ci si trovava dinanzi a una società borghese e capitalistica che doveva essere accerchiata e fatta implodere, sia pure in maniera non violenta e con una strategia ‘migliorista’: più pedine si collocavano in campo avverso, più si affrettava il giorno del ‘giudizio universale’. Il non tener conto, nell’arruolamento dei nuovi cattedratici, di ‘fattori astratti, e comunque sempre opinabili’, come la bravura e la produzione scientifica, non aveva nulla di scandaloso o, peggio, di bassamente clientelare ma rispondeva a un ‘imperativo ideologico’, a un dovere verso la Storia. Se si ha una concezione ‘sostantiva’, non formale e non liberale, della lotta politica, ciò che importa è l’estensione progressiva dei territori su cui piantare la bandiera, le casematte gramsciane che si riescono a conquistare. Una ‘osservanza delle norme’ che ostacoli o ritardi la marcia del Bene val meno di una “cattiva azione”. Un prefetto del pretorio cristiano ha la precedenza su un pagano pur se più competente; un intendente generale illuminista è meglio di uno di lui più esperto ma conservatore.

La democrazia liberale, oggi, è davvero in pericolo ma esso è rappresentato dall’eticizzazione esasperata della politica, dal convincimento, tanto radicato nel pubblico di lettori evocato da Giampaolo Pansa, che è in corso una “lotta per la civiltà e per il diritto” e che compito di quanti hanno a cuore le sorti del paese sia quello di “tollere mala mundi”. E’ uno stile di pensiero, “che viene da lontano” e che vede nella politica il momento della ‘redenzione’, dell’eliminazione delle "mele marce": il che, in Italia, significa la resa dei conti con l’uomo del ‘particulare’, con la provincia profonda, con l’arte dell’arrangiarsi, con la corruzione che ieri aveva il volto di Craxi e oggi di Berlusconi (politici, beninteso, criticabili e criticati , con buoni argomenti, da non pochi autentici liberali). In virtù di questo abito della mente, contano le cose non le procedure impiegate per tenerle sotto controllo. "E’ corretto che un partito utilizzi una compagnia di assicurazione della Lega delle Cooperative per ottenere il controllo di una grande banca di carattere nazionale e internazionale?”. E perché no? Il partito in questione, quel partito, è o potrebbe essere -ma quante delusioni sta dando ai suoi seguaci, ferite su cui il senatore Antonio Di Pietro affonda il suo implacabile coltello! – il collettore di quanto di positivo, di ‘virtuoso’, c’è nel paese: si preferirebbe, forse, che la “grande banca di carattere nazionale e internazionale” venisse “controllata” da altri gruppi di interesse o da altri partiti, legati semmai a Mediaset e alle sue reti imprenditoriali? Il PD è formalmente un giocatore come gli altri, sostanzialmente è un arbitro, incarnando, più di altri partiti di sinistra, per numero di voti, la legittimità repubblicana e resistenziale.

Per il cristiano dell’età di Costantino, per l’illuminista dell’età di Luigi XV e certo assai più modestamente – per la nostra sinistra postcomunista, postazionista, postdossettiana – che, a differenza dei cristiani e degli illuministi, non è portatrice di nessuna ‘nuova civiltà’ -, non esistono zone neutre nei rapporti tra Stato e cittadini, né attori sociali che non stiano “da qualche parte”. Di qui la sostituzione della cooptazione motivata dalle appartenenze alla mobilità sociale fondata sul merito. Quanti sono impegnati nel “combattere il male” vanno favoriti in tutti i modi e in tutti i settori, dall’Università al cinema e al teatro, dalla musica leggera agli spettacoli di intrattenimento televisivi, dalla carta stampata – editoria, giornalismo – all’imprenditoria, pubblica e privata. Non sono ingenuo e so bene che, in tutto questo, ci sono tornaconti personali e travestimenti ideologici spesso ignobili ma, torno a ribadire, il punto non è questo. Il punto è l’estraneità della nostra “political culture” all’universo liberale che, per dirla col grande Raymond Aron, ha bisogno di climi miti e deperisce nelle tempeste delle ideologie e..delle crociate. Non sono i professionisti del caos, i banditori della nuova resistenza al nuovo fascismo, a preoccupare, bensì quanti – e sono tanti – danno loro ascolto. Sono usciti da una scuola che si è guardata bene dall’insegnar loro che in politica interessi e valori non possono venir collocati in un ordine gerarchico oggettivo e tale da imporsi a tutti incondizionatamente; che una ‘società libera’, occidentale, non è caratterizzata dall’allargamento della sfera dei diritti ma dall’allargamento della sfera delle libertà; che la democrazia liberale non mira a rendere gli uomini più buoni ma più ‘pacifici’, dando loro strumenti istituzionali per risolvere le loro controversie senza ricorrere alla violenza; che il capitalismo è l’unico modo finora inventato dagli uomini per produrre ricchezza, anche se non è in grado di distribuirla equamente; che il capitalismo ‘buono’ non è quello solidale (che non esiste) ma quello che rispetta le libertà e le ‘regole del gioco’; che il mercato non è quella cosa che si riserva ai nemici ma dalla quale si ‘proteggono’, con accorte sovvenzioni, gli amici; che, nell’ambito riservato alla politica, quel che la maggioranza vuole è legge: non sono le elite illuminate, infatti, a dover stabilire quel che è bene e quel che è male, ma gli uomini della strada, gli ‘uomini qualunque, i John Doe.

E’ non poco significativo che questo discorso, per gran parte dell’opinione pubblica di sinistra, sappia di ‘populismo’. E’ la riprova di quanto radicata sia nel nostro paese la mitologia delle ‘minoranze eroiche’ che si sono assunte la missione di risanare moralmente e spiritualmente le masse gregarie della nazione.