Nella messa cantata di Fazio e Saviano si celebra tutto tranne che la vita

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Nella messa cantata di Fazio e Saviano si celebra tutto tranne che la vita

26 Novembre 2010

La reazione di Fabio Fazio, Roberto Saviano e del direttore di Raitre Paolo Ruffini alla richiesta delle associazioni pro-vita ad esprimere il loro punto di vista in risposta alla propaganda pro-eutanasia offerta a spese dei contribuenti nella trasmissione "Vieni via con me" dimostra chiaramente – se ce ne fosse stato ancora bisogno, dopo il caso delle accuse senza contraddittorio di connivenza con la ‘ndrangheta alla Lega – come i protagonisti del programma intendono il diritto all’informazione e il servizio pubblico.

Si tratta di una visione assolutamente unilaterale che in realtà non può certo sorprendere un osservatore anche minimamente smaliziato. Per tenersi in piedi, infatti, la "messa" secolare che vede Fazio come officiante e Saviano come "vittima sacrificale" e "Cristo in croce" (come è stata efficacemente descritta da Aldo Grasso sul "Corriere della Sera") non può assolutamente permettersi alcuna increspatura o incrinatura. Essa deve proporsi come il ritratto organico, coerente e dogmatico di un paese ideale, tutto virtù civica e buoni sentimenti, i cui avversari possono essere soltanto criminali, disonesti conniventi, mostri senza cuore. La "liturgia" della sinistra emotiva e iper-politically correct, per aspirare ad essere credibile, non può essere mai sfiorata e "sporcata" dall’idea che la politica possa, e anzi debba, essere conflitto anche radicale e doloroso su princìpi, interessi, opzioni di governo diversi: l’insinuarsi di questo dubbio pregiudicherebbe irrimediabilmente la solennità della celebrazione.

In questa logica, evidentemente, è impossibile per gli officianti della religione "faziosa" consentire che i telespettatori siano anche soltanto sfiorati dal dubbio che su temi come quelli biopolitici – quelli concernenti l’atteggiamento di società e istituzioni verso le soglie estreme della vita e della morte umana – possa esistere un autentico dibattito, in cui ogni cittadino e attore politico ha il dovere di fare (ed argomentare razionalmente in modo persuasivo) una scelta di campo. Il tema deve necessariamente essere presentato – come è stato fatto nel "racconto" delle vicende di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro – come una questione su cui chiunque sia dotato di un minimo di umanità non può che stare dalla parte delle "scelte di libertà" compiute in questo caso con la decisione di interrompere la propria esistenza, o quella altrui.

Se le associazioni dei familiari e degli operatori che assistono i malati in stato vegetativo raccontassero una versione completamente diversa della storia – quella dell’incrollabile, amorosa assistenza offerta a tanti casi di vita "estrema" e del rifiuto di considerare qualsiasi esistenza come non degna di essere vissuta – Fazio, Saviano e i loro "fedeli" sarebbero costretti ad uscire dalla loro "omelia" e a prendere una posizione politica, cioè dialettica e conflittuale, chiamando le cose con il loro nome.

Ma proprio ammettere la realtà del conflitto e chiamare le cose con il loro nome è strutturalmente improponibile per qualsiasi visione ideologica (cioè teologica in senso secolarizzato) della realtà, sempre inevitabilmente inclinata verso la "neolingua" eufemistica ed ambigua dei totalitarismi. Se i temi biopolitici rappresentano oggi (ma forse non da oggi) la grande linea di frattura ideologica tra "progressismo" nichilista e tradizione dei diritti inalienabili della persona umana, non è un caso che proprio su quei temi la cultura politica liberal fondata sul "buonismo" eticista esprima il massimo di mistificazione linguistica.

Non a caso la pubblicistica egemone nei mass media impone da tempo di chiamare l’aborto "interruzione volontaria di gravidanza", di chiamare "embrioni" e "feti" i figli concepiti e poi congelati, sezionati, distrutti, soppressi, di definire "donatori" di sperma o di utero quanti in realtà tali parti di sé vendono e affittano, spesso spinti dal bisogno e sfruttati senza nessun diritto allo scopo di soddisfare desideri (o capricci) altrui.   

In questo senso, più ancora che la motivazione del rifiuto ad ospitare il punto di vista dei sostenitori intransigenti del diritto alla vita a "Vieni via con me" con l’argomentazione che non si può dare voce a tutte le opinioni su tutti i temi perché la trasmissione "non è una tribuna politica", colpisce la difesa di merito del rifiuto stesso compiuta da Fazio, Saviano e gli autori. Non possiamo dare voce alle argomentazioni pro-vita, essi sostengono, perché è inaccettabile che la nostra venga presentata come una posizione "pro-morte", mentre invece "abbiamo raccontato due storie di vita, sottolineando la pari dignità, di fronte alla prosecuzione artificiale della vita, di chi sceglie di accettarla e di chi sceglie di rifiutarla".

Insomma, gli artefici della "messa cantata" di "Vieni via con me" non possono a nessun costo ammettere di essere, come appare viceversa evidente, a favore dell’eutanasia, in un dibattito pubblico in cui esistono altre voci – giuste o sbagliate, ma comunque lecite – che si esprimono in senso contrario. No: i "fedeli" della loro religione secolare devono assolutamente pensare che anche Fazio, Saviano e compagni siano a favore della vita, nonostante propugnino inequivocabilmente la legalizzazione della sua soppressione, per decisione del soggetto interessato o (come nel caso Englaro) addirittura per procura.

Se i "fazisti" avessero giustificato il loro veto sostenendo soltanto di essere portatori di un punto di vista soggettivo, e di non essere tenuti all’ecumenismo, la loro posizione sarebbe stata più difendibile, per quanto comunque fondata sull’equivoco uso di parte di un servizio pubblico che per sua natura dovrebbe consentire un confronto pluralista (argomento sempre rivendicato da quelle parti politiche quando si tratta di programmi politici in cui compaiono punti di vista filo-governativi). Ma ciò che rende sommamente ingiusta e angosciante la loro censura è proprio la pretesa di essere già ecumenici, di essere i portatori di un punto di vista universale coincidente necessariamente con il senso civico democratico: la concezione soggettivistica-relativistica della vita e del diritto alla vita, che a quanto pare a loro avviso non può nemmeno essere posta in discussione.

Pretesa suggellata dal richiamo alla celebre (per molti famigerata) sentenza della Cassazione del 2007 che aprì la strada alla procedura eutanasica nei confronti di Eluana Englaro. Sentenza le cui disposizioni a parere degli artefici della trasmissione "rappresentano tutti, nessuno escuso". E che dunque andrebbe considerata anch’essa, analogamente alle "storie di vita" da loro raccontate in video, come un testo sacro, un dogma, piuttosto che come uno tra i tanti possibili (ed interpretabili) pronunciamenti espressi nel dibattito istituzionale, politico o giuridico in un regime di democrazia pluralistica.

Ecco perché nella "Chiesa" di Fazio e Saviano non può avere assolutamente accesso l’"eresia" di chi adopera la lingua del "sì, sì" e "no, no". Di chi, cioè, chiama "vita" la vita e "morte" la morte.