Nella rabbia e nell’orgoglio della Fallaci c’è qualcosa che a un liberale non piace
16 Maggio 2010
C’è qualcosa di sgradevole esteticamente e di inaccettabile moralmente nel gran risalto dato dal ‘Riformista’ di domenica scorsa alla lettera scritta a Chicco Testa da Oriana Fallaci a fine luglio 2000. E’ vero che i giornali debbono vendere e che, con la crisi in corso, solo uno scoop o un inedito imbarazzante fanno aumentare le tirature ma, come dicevano gli antichi, «est modus in rebus». Nel secolo della decadenza italiana, la regola del versificatore più dotato, Giambattista Marino, dettava: «è del poeta il fin la meraviglia/ chi non sa far stupir vada alla striglia». Poiché è la stessa regola che sembrano aver adottato persino i giornalisti di più elevata professionalità, vuol dire proprio che siamo entrati in una nuova stagione di oscuramento dell’intelligenza e dell’etica.
Fare un giornale non significa più attenersi a una linea politico-culturale con coerenza e competenza ma ingegnarsi in modo da attrarre il lettore con qualche notizia o rivelazione bomba. Sapevate quello che realmente diceva in privato Giorgio Amendola di Sandro Pertini? La redazione del quotidiano XY è riuscita a mettere le mani su una lettera in cui l’esponente comunista ‘parla fuori verbale’: che male c’è a divulgarla? Quanti (ancora) si interessano alla politica si precipiteranno all’edicola per non rimanere senza la copia del giornale, storici, filosofi, sociologi non perderanno l’occasione per rilasciare interviste, i mercatisti faranno il solito predicozzo ai moralisti (un periodico è un’impresa che vende la merce-notizia, se la merce è richiesta il direttore fa il suo mestiere nello sfruttare il gossip..). Tutto dura l’espace d’un matin: dopo qualche settimana o qualche giorno, se ne perderà il ricordo, a causa di altri scoop analoghi o per la preoccupazione generata da eventi, ecologici o economici, ben più rilevanti e inquietanti.
Ma torniamo alla lettera. Rievocando l’agguato dei Gap che hanno «ammazzato ingiustamente e vigliaccamente» Giovanni Gentile – «Ammazzato, sì Assassinato», scrive la Fallaci tra parentesi, «Non ‘giustiziato’ come diceva quell’imbecille del tuo professore. Certo un fascista rosso. Disinformato, fanatico, e uscito dal Cottolengo» – «l’Oriana furiosa» ricorda lo sconcerto dei resistenti azionisti fiorentini alla ferale notizia. Suo padre, «capo militare del Partito d’Azione—Giustizia e Libertà, per Firenze», «era verde. Fremeva. Schiumava. E non capivo perché. Ma poi lo capii». «Hanno ammazzato Gentile. Quegli imbecilli. Quegli irresponsabili. Quei cacasotto» dirà incontrando Pippo (Tristano Codignola), anche lui tremante di rabbia e di indignazione.
Che la morte di Giovanni Gentile avesse diviso profondamente gli animi della Resistenza era ampiamente noto. Del resto, se si considera che uno dei suoi allievi più cari e devoti, Guido Calogero, azionista e liberalsocialista, fu una delle figure più luminose dell’antifascismo democratico, un autentico maestro di socratica saggezza, e se si pensa che tanti altri intellettuali militanti (non solo azionisti ma anche comunisti) continuavano a vedere in lui un padre spirituale che, a un certo punto, aveva imboccato ‘strade diverse’ – e, per taluni, persino in contrasto con lo spirito più profondo del suo insegnamento – si può ben capire la reazione alla barbara (inutile) esecuzione. La testimonianza della Fallaci se non dice nulla che già non si sapesse, arricchisce il quadro con un episodio che oltre tutto fa onore sia a suo padre che a Codignola. Tralasciamo il giudizio storico che viene dato del Partito d’Azione e dell’assoluta incompatibilità ideologica che lo avrebbe separato dal Partito comunista: si può comprendere come un’esperienza vissuta in prima persona continui a pesare come un macigno per tutta la vita, impedendo, in questo caso, una comprensione più pacata dei dissensi reali all’interno della sinistra italiana.
A irritare profondamente è, invece, quanto vien detto dopo, con verve saccente e stile apodittico «A me non pare che Gentile fosse fascista. O non più di Benedetto Croce che all’inizio leccava il culo a Mussolini, eppure passata la festa la soi-disant sinistra lo ha osannato come un grand’uomo. Un uomo probo. Una mente sublime. O non più dei comunisti che, quando negli anni Trenta mio padre veniva bastonato e purgato perché non era iscritto al PNF e faceva il ‘sovversivo’, sventolavan la tessera. Se Gentile meritava di morire, allora ance Benedetto Croce lo meritava. E tanti altri che sarebbero diventati numi del PCI».
Dinanzi a una prosa del genere, ci si chiede, ha avuto davvero senso pubblicare la lettera? Il rispetto per la memoria di una donna coraggiosa, sia nei confronti del conformismo ideologico dominante – v. La rabbia e l’orgoglio – sia nei confronti della terribile malattia che l’aveva colpita, non doveva indurre a tenersi nel cassetto la lettera a Chicco Testa? Chi aveva pensato di intitolarle una strada o una piazza – e io sarei stato tra questi – ha ancora voglia di rendere omaggio alla enragéè che parlava di Benedetto Croce come di uno «che leccava il culo a Mussolini»? Non colpisce, beninteso, il linguaggio da trivio, che pure denuncia una irreparabile perdita di stile e di ‘misura’, bensì la crassa ignoranza di chi, a differenza di Mussolini – che in Parlamento diceva di non aver letto una sola pagina del filosofo ma che, in realtà, lo conosceva più della media dei suoi colleghi deputati – forse non avrebbe mai ammesso la sua incultura ma si lasciava andare, in nome del diritto superiore di chi ha raggiunto le vette della celebrità, ad ironie gratuite sull’«uomo probo» e la «mente sublime». Sarebbe bastato alla Fallaci leggere Storiografia e idealità morale per capire che la «mente» era davvero «sublime» e sfogliare qualche biografia di quello che Gramsci chiamava il «papa laico» per rendersi conto dell’ostilità impotente del regime nei suoi confronti e per venire a conoscenza di qualche episodio di inequivocabile minaccia di violenza. (v. la bravata della sinistra fascista a Palazzo Filomarino, con la biblioteca e le carte messe a soqquadro.«E’ la dimostrazione pratica di ciò che significa la filosofia dell’atto puro» fu il commento di Croce, con la sua inarrivabile, distaccata, ironia).
In realtà, nella lettera vengono fuori i lati oscuri dell’antropologia culturale italica, quelli che, a destra e a sinistra, ci rivelano che non siamo ‘occidente’ ma una terra di confine, in cui si danno convegno mentalità tribali e fughe illuministiche, la ‘giustizia del cadì’ e la filosofia del diritto di Immanuel Kant: una terra in cui lo spirito della Vandea s’insinua nel lettore di Voltaire e l’aggressività intellettuale dei Lumi viene riciclata dalla reazione e la rafforza. E’ un «costume di casa» che si compendia in un solo termine: il moralismo, un moralismo esigente ed esasperato, che nei migliori – e la Fallaci è indubbiamente tra questi – si converte nel diritto, assicurato da una vita di scelte coraggiose e rischiose, a giudicare, sulla base di una immediata intuizione del cuore, uomini ed eventi. E’ la stessa arrière-pensée che, in fondo, si ritrova negli scritti di Giorgio Bocca: in entrambi i casi, la bussola del buon senso è radicata nella comunità: se si è di Cuneo, si va subito al cuore delle questioni senza tanti arzigogoli, se si è di Firenze si capisce immediatamente l’inganno e la buona fede. In entrambi i casi, troviamo una matrice azionista, con la risoluzione della politica in morale e della morale in ciò «dove ti porta il cuore».
In quest’ottica, la persona (davvero) onesta non ha bisogno di sapere tante cose e lascia volentieri l’erudizione a quanti appartengono alla razza delle ‘volpi’ machiavelliane. Poiché non c‘è l’interesse a velare il suo sguardo, le è sufficiente un colpo d’occhio: un fatto significativo, un dato biografico basta e avanza per consentirle di valutare un uomo. Croce fino al 1924 ritenne – con tanti altri futuri antifascisti e non solo liberali — che la ‘medicina’ fascista fosse necessaria per far uscire il paese da una guerra civile che rischiava di mettere in crisi la stessa conseguita unità nazionale? Ebbene, non c’è altro da dire: Croce rimane consegnato alla storia d’Italia come un «leccaculo» del duce. Se fu colpevole Gentile, che, come ricorda Luciano Canfora sul ‘Riformista’, «in una seduta dell’Accademia d’Italia inneggiò all’alleanza con i tedeschi che, disse, avrebbe salvato l’Italia», altrettanto lo fu il suo presunto antagonista napoletano.
Come tutti gli iper-moralisti che si rispettano, la Fallaci è prigioniera dell’«assoluto»: il giudizio etico su un evento o su un comportamento non conosce zone grigie. O si vive nella luce esaltante della sublimità eroica o si sprofonda nelle tenebre del male. In mezzo non c’è niente e un errore o un fallo – come l’adesione di Croce al primo governo fascista (adesione che può destare meraviglia solo in chi non ha mai, neppure sfiorato l’orizzonte del revisionismo storiografico) – fa precipitare da una dimensione all’altra e in maniera irreparabile.
Tale moralismo esasperato, nella società italiana, spesso diventa l’alibi che attiva due diversi atteggiamenti : l’uno consiste nel sottrarsi alle sanzioni dell’opinione pubblica e a quelle dei tribunali (‘così fan tutti’: a voler punire tutte le infrazioni l’80% dei nostri connazionali dovrebbe stare in gattabuia…); l’altro nell’ipocrita – e soprattutto comoda – assimilazione di illeciti diversi, che non fa più distinzioni tra ‘peccati veniali’, reati leggeri e malversazioni pesanti: se il comandamento è quello di ‘non rubare’, il furto di dieci euro equivale a quello di diecimila (e, per fare un esempio d’attualità, un affitto agevolato equivale al regalo di un appartamento di lusso).
Nella logica del ‘cuore retto’ che rende la ragione lucida, la Fallaci non si contiene dal dare, en passant, una sua personale interpretazione di Giovanni Gentile: «A me non pare che Gentile fosse fascista». Sennonché in base a quale ‘competenza’ s’è formata tale convinzione? Così, un’intuizione! Ma sicuramente ritenuta più ‘giusta’ di tante chiacchiere (accademiche) sull’attualismo e sulle sue ricadute ideologiche. Anche questa intuizione, però, si connette strettamente al moralismo: se Gentile è caduto vittima della canaglia (e per giunta, ‘cacasotto’), come poteva non essere una persona perbene? E se era una persona perbene come poteva essere davvero ‘fascista’? In realtà, è difficile, per molti connazionali, pensare che la tragedia del mondo, come aveva ben visto il vecchio Hegel, sia costituita dal fatto che non vi si svolge la lotta tra il Male e il Bene ma tra valori in conflitto, forniti tutti di una loro nobiltà anche se alcuni condannati dai loro orizzonti etici – più angusti rispetto a quelli che fanno la forza degli avversari – e dalla relativa incapacità di far fronte alle sfide della storia. No, Gentile, come ha ricordato giustamente Marcello Veneziani (sempre sul ‘Riformista’) era fascista e va rispettato come tale: il suo fascismo era sicuramente diverso da quello di Farinacci e di Starace ma nasceva da convincimenti profondi e da una fede nei destini nazionali, inaccettabile per chi si nutre non retoricamente di liberalismo e di democrazia ma non pertanto interessata e superficiale.
Il commento alla lettera di Oriana non sarebbe completo senza l’accenno a un altro ‘vizio’ storico italiano per il quale non c’è speranza di emendamento. Mi riferisco alla notorietà conseguita in un campo che, in Italia, si converte nel privilegio di essere presente in tutti i campi. E’ quanto avviene col ‘manifesto’ di protesta che raccoglie le firme di personaggi ‘famosi’, non importa perché e a quale titolo. Essere qualcuno nel proprio settore, purché si stia sotto i riflettori, conferisce l’autorità e il potere per sputare sentenze su ogni problema, locale, nazionale, planetario. Anni fa uno scrittore inglese, vedendo la firma di attori, letterati, cantanti, intellettuali vari in calce a un manifesto politico, chiese stupito: ma perché alla gente dovrebbe interessare ciò che pensa uno scrittore o uno scultore su una questione politica che divide conservatori e progressisti? Se avesse assistito giorni or sono, a Genova, allo spettacolo di Paolo Conte al Teatro Carlo Felice in cui si criticava il progetto di privatizzazione dell’acqua – un progetto che non trova d’accordo neppure me – si sarebbe chiesto dipietristicamente: ma che c’azzecca la perorazione antigovernativa col concerto del cantautore piemontese? (peraltro molto bravo). C’è bisogno di ribadirlo? Se questa «invasione di campo» fa vendere più copie a un giornale, se il parere di Maurizio Maggiani sul prestito europeo alla Grecia per evitarne la bancarotta incuriosisce il lettore, perché non tenerne conto?. Chiediamo pure a Fiorella Mannoia una sua valutazione sulla riforma degli Atenei e a Francesco Totti se trova necessario il ritorno al nucleare. «Così va il mondo» e, pertanto, nessuna meraviglia che Oriana Fallaci ci dica la sua – comunque in una lettera privata – sulle valenze etico-politiche del neo-idealismo italiano.
L’etica liberale, però, non è la santificazione di tutto ciò che passa il convento, ovvero il mercato giornalistico, anche se ciò che viene passato è lecito, legittimo e legale. Cose come il ‘rispetto delle competenze’ non si possono imporre dall’alto (lo faceva lo stato etico), ma ciò non deve avallare il rispetto della ‘non competenza’ o la rinuncia a esporre valori alternativi o ad attivare, nel pieno rispetto dell’altrui libertà, abiti di comportamento e sensibilità diverse. Se è inconcepibile, per un liberale, voler eticizzare il mercato (si vende solo ciò che è buono), lo è altrettanto il voler mercificare l’etica (è buono solo ciò che si vende) ovvero l’astensione dalla critica dei prodotti ‘in vetrina’. Se non si tengono distinte etica ed economia, poesia e scienza dove andrà mai a finire il liberalismo?
Polito è liberissimo di dedicare due paginoni di un quotidiano di appena 16 pagine allo sfogo rabbioso di Oriana Fallaci – certo esacerbata dal tumore devastante – ma anche il lettore ha la facoltà di chiedersi: è servito a qualcosa mostrare il lato oscuro di una giornalista che abbiamo tanto ammirato e apprezzato anche per la sua political uncorrectness? Quei paginoni (forse) hanno fatto vendere qualche copia in più del ‘Riformista’ ma quale contributo hanno dato ad elevare il livello civile della stampa italiana?
Nessuno è grande per il suo cameriere, diceva Hegel, ma solo perché è un cameriere… In questo caso, la rivelazione di Polito – che non è un cameriere ma un eccellente giornalista – ci ha mostrato, invece, come la ‘grande’ non fosse davvero tale ma una narcisista amareggiata e portata a fare del suo piccolo vissuto fiorentino una vicenda epocale. Ne è valsa la pena?