Nella Roma di Veltroni torna di moda Pinocchio

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Nella Roma di Veltroni torna di moda Pinocchio

02 Marzo 2008

All’Opera di Roma vanno in scena due favole: “Le avventure di Pinocchio” su musica di Mozart, Schubert e Offenbach e Beethoven al Teatro Nazionale e “Rusalka” di Antonin Dvořák al Costanzi. Una favola in musica, “La leggenda della città invisibile di Kitez”di Nikolai Rimski-Korsakov inaugurerà in aprile la stagione 2008 del Teatro Lirico di Cagliari. Nei cartelloni dell’Europa centrale ed orientale (nonché in Francia ed in Gran Bretagna) la programmazione di teatro in musica sarebbe normale. E’ anzi una consuetudine, non solamente nel periodo natalizio quando vengono messi in scena “spettacoli per famiglia” che sovente fanno ricorso a balletti od opere con elementi fiabeschi. In Italia, invece, la “favole in musica” sembrano distanti dal nostro temperamento.

Tendenzialmente scettici e disillusi, abbiamo poca dimestichezza con il fiabesco pure nella letteratura. Probabilmente l’unico apporto alla letteratura mondiale nel genere, tale da essere considerato un capolavoro, è “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto. Nella narrativa possiamo vantare unicamente una favola per bambini: “Pinocchio” di Collodi. A ben leggerla, però, è un racconto per adulti vagamente qualunquista e con un pizzico di cinismo. Nel teatro, le stupende favole di Carlo Gozzi vennero offuscate dalle commedie borghesi di Carlo Goldoni. Nel teatro in musica, il favolistico finì con il Barocco. I tentativi di Mascagni, Malipiero e pochi altri di riprendere il genere che, all’inizio del Novecento aveva grande fortuna in Germania, Francia e nell’Europa centrale ed orientale, fallirono miseramente: anche quando suscitarono reazioni positive dalla critica, il pubblico voltò loro le spalle. Secondo il libretto e le note di scena, la pucciniana “Turandot” si svolge nella Cina “dei tempi delle favole”, ma né il testo né la musica hanno un vero elemento magico: l’accento è sul dramma intimo-psicologico (ove non psico-analitico) in un quadro, per certi aspetti, autobiografico. Lo ha ben compreso il regista Henning Brockhaus nella sua recente lettura, dell’ultima opera di Giacomo Puccini, nella stagione alle Terme di Caracalla della fondazione lirica romana.

Eppure proprio “la musa bizzarra ed altera”, l’opera lirica, nata in Italia e che in Italia ha avuto la sua più lunga e più importante stagione come spettacolo commerciale per il grande pubblico di tutti i ceti sociali, si presta meravigliosamente al fiabesco per la fusione di azione scenica, canto, danza ed orchestra. E come tale nasce a Firenze. Nel nostro Paese il fantastico sparisce alla fine del Settecento: la stessa “Armida” di Rossina, pur ispirata al fiabesco dell’Ariosto, diventa innanzitutto un’opera erotico-sensuale. Il melodramma del romanticismo italiano quasi rigetta il fiabesco, centrale invece all’opera tedesca (si pensi a Marschner, Weber, allo stesso Wagner) dello stesso periodo, nonché a quella del Novecento (si pensi a Strauss). Nella Francia della Terza Repubblica il fiabesco viene utilizzato per dilatare nel mito i temi della società borghese nel periodo dell’industrializzazione trionfante (si pensi a “Cendrillon”, “Chérubin” e “Le Joungleur” di Massenet). In Europa centrale ed orientale, le favole antiche (unitamente alla storia nazionale) alimentano la nascita di forme di teatro in musica che prendono nettamente le distanze da quelle assunte in Europa occidentale.

Come mai tornano di moda le favole in tempi veltroniani? Da sinistra si può dire che gli italiani hanno smesso di sognare con gli occhi del mago dei media, Silvio Berlusconi. Da destra, si può dire che il “dodecalogo” veltroniano ed i suoi tentativi di mostrarsi come la novità distincontinua rispetto all’esperienza prodiana sono tutta una favola. Interpretazioni maliziose. Molto verosimilmente la determinante è un’altra. In un Paese che da anni ha una crescita rasoterra e si soffre di una vera e propria oppressione fiscale e regolatoria, la fiaba della ninfa Rusalka, innamorata del Principe e disposta ad assumere sembianze umane, pur al prezzo di perdere la parola, è piena di simboli anche per noi. Specialmente in un allestimento, come quello in scena al Costanzi, che si riallaccia al visivo di Klimt. Nella favola, il giovane si innamora ma non troppo: nel giorno delle nozze segue senza farsi troppi problemi una rabbiosa e passionale principessa straniera che cattura le sue attenzioni. Rusalka ritorna al lago, avviata a un destino di tristezza eterna. Il principe non riesce però a liberarsi dell’ossessione-Rusalka. Morirà chiedendo perdono tra le sue braccia. E’ anche un invito a liberarci, nella realtà, dalle ossessioni. E, quindi, ad esprime con giudizio la nostra visione (concreata non fiabesca) dell’Italia a metà aprile.