
Nella Russia di Putin e Medveved irrompe il Liberalismo

27 Marzo 2010
In Russia si aggira un fantasma, quello del liberalismo. Nessuno lo ha visto e pochissimi nel parlano. Ma da un mese, un think tank considerato vicino al presidente Medvedev ha emesso un documento con un programma completo di riforme: libertà completa per i media, soppressione dell’Fsb (discendente del Kgb), decentramento del Ministero dell’Interno, multipartitismo genuino (con un’alternanza normale fra un centro-destra e un centro-sinistra), liberalizzazioni nell’economia, privatizzazione dei colossi statali, una politica estera filo-occidentale che veda la Nato come un partner e non come un avversario. Il documento è stato emesso all’inizio di febbraio dall’Istituto per lo Sviluppo Contemporaneo (Insor), diretto dal riformatore liberale Igor Jurgens. Si tratta di un’organizzazione privata in cui Dmitri Medvedev figura come presidente onorario del board of trustees.
La storia del liberalismo russo è sempre stata breve e drammatica. Finora, in mezzo millennio di storia, gli amanti della libertà individuale in Russia hanno avuto solo due occasioni. La prima fu nel marzo del 1917, dopo la rivoluzione di febbraio, quando si formò il primo governo democratico retto da due liberali, L’vov (presidente del governo) e Miljukov (esteri). La parentesi liberale poteva già considerarsi chiusa in aprile, quando il primo governo di transizione cadde dopo la prima ribellione bolscevica e fu sostituito da un esecutivo socialista guidato da Kerenskij. Quando anche quest’ultimo venne travolto dal colpo di stato bolscevico nel novembre del 1917 (la “rivoluzione d’ottobre”), i liberali persero ogni speranza di riformare il Paese, introducendo la libertà di espressione. E in moltissimi casi persero anche la vita, in Russia o in esilio.
Questo movimento non lasciò alcuna traccia nella storia successiva della Russia, tanto è vero che studi sui suoi protagonisti e sulle loro idee si sono potuti effettuare solo negli ultimi vent’anni. Dopo quasi un secolo di notte sovietica, il liberalismo russo risorge infatti nel 1991, dopo il dissolvimento dell’Urss e la rinascita di una Russia indipendente sotto la guida di Boris Eltsin. È liberale il primo premier, Yegor Gaidar, che tenta di trasformare il suo Paese in un sistema capitalista, con la cosiddetta “terapia shock”. Anche in questo caso, però, è una breve parentesi. I governi che si sono succeduti alla guida del Paese dal 1992 all’ascesa di Putin nel 1999 vengono guidati da personalità politiche post-sovietiche, quali Viktor Chernomyrdin (che aveva alle spalle una carriera nell’industria pesante ed estrattiva sovietica) e poi Yevgenij Primakov (ex ambasciatore sovietico, esperto di Medio Oriente).
L’assenza di riforme economiche sotto i loro governi ha indebolito notevolmente la Russia, lacerata contemporaneamente al suo interno da conflitti etnici e secessionisti, primo fra tutti quello in Cecenia. Poi è arrivato Putin, il quale attribuisce al liberalismo dei primissimi anni di indipendenza russa l’origine di tutti i mali economici, morali e politici. Yegor Gaidar, morendo il 16 dicembre dell’anno scorso, ha portato nella sua tomba l’ultima esperienza riformatrice nella storia russa. E in patria nessuno lo ha celebrato come un eroe.
Il liberalismo in Russia è stato per due volte il primo propulsore delle rivoluzioni e la prima vittima delle stesse. A livello popolare costituisce a tal punto un’eccezione da far pensare che il popolo russo, per cultura, tradizione e storia, “non sia adatto” a una società libera. “Chiamatelo fato o ironia, ma sono nata, tra tutti i Paesi della Terra, in quello meno adeguato per una sostenitrice della libertà individuale”, diceva Ayn Rand, scrittrice e filosofa individualista che dovette emigrare negli Stati Uniti pochi anni dopo la presa del potere dei bolscevichi.
“La modernizzazione spontanea (liberale, ndr) è un fenomeno culturale che si è affermato solo nei Paesi di cultura anglo-sassone”, spiegava lo scorso febbraio Vladislav Surkov, vice capo dello staff del Cremlino, al quotidiano Vedomosti lo scorso febbraio. “Non è un fenomeno che si è ripetuto altrove. Non in Francia, non in Giappone, non nella Corea del Sud. In tutti questi Paesi la modernizzazione è arrivata dallo Stato. Negli anni 90 il liberalismo in Russia ha portato alla spaccatura della società, non alla nascita di energie positive. Sì, qualche energia è stata prodotta, ma è già stata spesa. E dove ha portato? Abbiamo visto che non è cambiato niente. E allora la società è stata costretta a richiedere lo Stato”.
Il liberalismo dell’Insor, pertanto, è solo una mera testimonianza intellettuale, o è alla base di una terza chance per il liberalismo russo? Il fatto che risulti vicino a Medvedev non deve trarre in inganno. Formalmente il presidente ne fa parte, ma “avrà incontrato i suoi membri solo un paio di volte, in incontri formali”, come ha commentato su “Svobodnaya Pressa” il politologo russo Nikolai Petrov del Moscow Carnagie Center.
L’inquilino del Cremlino, dal canto suo, sembra quantomeno disattento ai consigli del think tank. Non ha mai dichiarato di voler riformare la polizia in senso federalista. Tantomeno ha detto qualcosa sull’Fsb e sul suo ruolo in patria all’estero. Né ha cambiato la politica estera russa: è nel suo primo anno di presidenza che è scoppiata la guerra contro la Georgia, accusata di essere troppo vicina alla Nato. E’ vero che Medvedev chiede più rispetto dei diritti umani, più libertà di stampa e più democrazia. Ma in questi casi è Putin a ricordagli di “non esagerare”, come ha fatto nell’ultimo Consiglio di Stato, in febbraio, quando, con un intervento non previsto, ha tuonato contro la possibilità di “ucrainizzazione” (democratizzazione in stile Ucraina) della politica russa.
Gli analisti del Cremlino sono divisi in due correnti di pensiero. C’è chi pensa che Medvedev sia un sincero riformatore liberale, ma venga bloccato dallo strapotere del premier Putin. E chi invece, come i dissidenti all’estero, crede che Medvedev e Putin stiano semplicemente giocando al gioco del “poliziotto buono e poliziotto cattivo”. Una delle maggiori esperte dell’élite russa, Olga Krishtanovskaja, ritiene addirittura che presidente e premier stiano recitando letteralmente un copione, già previsto in un piano, chiamato “Russia 2020”, redatto nel 2005. Questo piano prevede, in una prima fase, l’accentramento del potere nelle mani del Cremlino e nella seconda (l’attuale) una liberalizzazione “molto controllata”, più di facciata che di sostanza, che serva soprattutto a soddisfare e assorbire l’opposizione.
Non ci sarà una terza chance per il liberalismo russo, dunque? Non è detto. In uno studio controcorrente condotto dal politologo Mikhail Afanasjev risulta infatti che nelle élite culturali e politiche russe domina l’insoddisfazione per l’attuale accentramento del potere. Afanasjev ha intervistato un campione significativo di 1000 persone scelte fra membri dei servizi di sicurezza, ufficiali dell’esercito, medici, insegnanti, giornalisti, avvocati, imprenditori, giornalisti. Solo le prime due categorie professionali vogliono il mantenimento dello status quo. Le altre categorie d’élite, le più istruite, sono tutte favorevoli alla riforma liberale. In Russia sta nascendo un Terzo Stato. Il programma dell’Insor potrebbe diventare il suo manifesto.