Nella Stalingrado d’Italia pure il tramezzino è di regime

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Nella Stalingrado d’Italia pure il tramezzino è di regime

10 Aprile 2008

Doveva accadere. La sveglia mercoledì mattina non è suonata o, per la precisione, la suoneria del telefono dell’albergo, alla bisogna, si è rivelata guasta.

Alle 8,30 mi chiama sul cellulare Gianni Clemente e mi dice: “faccio il ceck-out per te?”, un modo indiretto per farmi notare: “guarda che sei in ritardo, il treno per Pisa parte tra 20 minuti”. Faccio appena in tempo a confessargli di aver aperto gli occhi in quel momento che mi precipito in bagno, mi lavo i denti, m’infilo pantaloni e giacca, chiudo il bagaglio e mi fiondo fuori dalla stanza, senza nemmeno farmi la barba. Mi riassetterò solo quattr’ore più tardi a casa di Raimondo Cubeddu, anche grazie a un rasoio elettrico. Non lo usavo dai tempi delle prime rasature; allora me lo prestava mio padre e il ricordo, nei lunghi minuti necessari al tentativo di togliere almeno qualche pelo, mi muove qualcosa dentro.

Il treno che Gianni ha scelto è ancora più lento di quello che domenica ci ha portato ad Orbetello. Non può ambire a occupare un binario di quelli che hanno inizio sul piazzale principale. Raggiungerlo in tempo, dunque, è una corsa pazza; una sorta di pedaggio preventivo pagato alla sua lentezza. L’umore, lo confesso, non è dei migliori.

Giunti a Pisa, però, cambia tutto. Ho deciso di assistere a una cerimonia nel carcere per l’intitolazione del polo universitario a Remo Conticelli: il professore che lo ha diretto fino al tempo della sua morte. Cerimonia toccante. Dopo, però, chiedo al direttore di visitare l’istituto di pena in tutti i suoi reparti: dopo aver visto le cose belle voglio vedere anche quelle meno gradevoli. Non è la prima volta che mi reco in una casa circondariale utilizzando per ciò le prerogative di parlamentare. E la situazione di Pisa, comparativamente, non è delle più disastrate. Il centro medico, addirittura, è un fiore all’occhiello provvisto persino di una tac. Ma se la sezione “penale” regge, anche qui quella giudiziaria è allo sfascio. Manca l’aria e in celle da due metri per due con bagno a vista vi sono, di norma, tre detenuti. Laddove dovrebbe essercene uno solo.

Familiarizzo con ispettori e guardie giurate. Mi raccontano di quando c’era “il detenuto modello”: “allora era un via vai continuo di parlamentari, giornalisti italiani e stranieri. Non si sapeva più come fare. Alcuni fra noi svolgevano ormai lavoro di segreteria a tempo pieno, cercando di raggruppare gli impegni per intralciare il meno possibile con le esigenze ordinarie”. Non ce l’hanno con Sofri. Riconoscono che grazie alla sua attenzione – e all’attenzione su di lui – , il carcere ha ricavato dalle istituzioni cose altrimenti impossibili. Tra tutte, un campo da calcio: quella a cui più tengono. Assai di più ce l’hanno con quei parlamentari così assidui nelle frequentazioni finché su quel carcere si estendeva la luce riflessa della ribalta e poi scomparsi nel nulla. Un’ispettrice mi dice: “Lei è il primo che si fa vedere da quando non è più qui”. Non ho controllato se è vero. Ma di certo non c’è più bisogno di tenere l’agenda degli appuntamenti.

Il personale sembra sinceramente dalla nostra parte, così come accade sempre quando si esce dal mondo del fantastico per approdare alla concretezza delle cose vere. Non ho ricevuto mai tanti incoraggiamenti. Ce l’hanno col governo della sinistra e salvano solo il sottosegretario Manconi: “era uno che ci credeva!”.

Ricevo conferma di una sensazione che avevo già avuto a Rebibbia: nelle carceri la condizione di personale e detenuti è legata da una catena invisibile. Solo visitando questo mondo lo si comprende fino in fondo e ci si rende conto di come, per umanità, oltre a chi è recluso bisogna sempre tener d’occhio la condizione di quanti – quasi sempre troppo pochi – nel carcere si trovano dall’altra parte. Mi chiedono di tornare per una riunione sui loro problemi. Prometto di farlo entro il mese di maggio.

Uscendo dal portone principale vedo sull’altro lato del marciapiede Raimondo Cubeddu, Antonio Masala e un loro collega giunto da fuori per l’iniziativa sull’università del pomeriggio. Seguono baci e abbracci. Chi avesse visto la scena dall’esterno, li avrebbe scambiati per parenti che ritrovano il congiunto appena rilasciato.

Così finisce il primo tempo. Nell’intervallo una breve visita dal Rettore (quando posso, mi ricordo sempre della mia istituzione d’appartenenza) e un dibattito televisivo. Il secondo tempo prevede, nel pomeriggio, la manifestazione nazionale del PdL sull’università, predisposta insieme ai giovani universitari di Forza Italia e ad Azione Giovani. Il titolo è emblematico: “The day after. Come salvare l’università dopo il disastro di Mussi”. La scelta di Pisa non è meno evocativa. E’ la città della Normale, dove Mussi ha studiato. E’ la città del rettore Modica suo sottosegretario e responsabile di alcuni dei provvedimenti di questi due anni. E’ la città dove si è formata una parte considerevole di quei giovani comunisti oggi classe dirigente egemone. Ho un po’ d’apprensione. Il tema è di quelli veramente importanti ma che di solito non scalda i cuori. La sala del palazzo dei congressi è grande: si riuscirà a riempirla a quattro giorni dalle elezioni?

Dubbi legittimi, che svaniscono quando s’inizia. La sala è piena per tre quarti. La manifestazione un mix riuscito: ci sono interventi politici come quello di Valditara e il mio, altri competenti come quello dei professori Grassini e Soldani e, infine, le suggestioni di studenti che Cubeddu coordina (“i ragazzi di Raimondo”) che promettono di essere più inflessibili della signora Thatcher. Guardando la sala dal basso mi sembra una sintesi tra un luogo per conferenze e un palazzetto dello sport. Riflette, insomma, la natura dell’iniziativa: un po’ manifestazione politica un po’ convegno. Penso: “con trenta persone in più tutto sarebbe stato perfetto. Un buon viatico affinché, la prossima volta, su questi temi si faccia veramente una manifestazione di massa di studenti che dicono basta con quarant’anni di politicamente corretto. Sarebbe il modo migliore per celebrare a modo nostro il quarantennale del Sessantotto”.

Dopo la manifestazione un buffet, in verità non all’altezza dell’evento: tramezzini un po’ molli, crostini insipidi. Lo faccio notare a Raimondo e lui mi dice che la ditta è stata imposta al momento dell’affitto della sala, per contratto. D’un tratto mi ricordo che siamo nella Stalingrado d’Italia. I trenta posti vuoti svaniscono e capisco che per aver portato 200 giovani a un evento di questo genere, “i ragazzi di Raimondo” hanno compiuto un vero miracolo.

Ben presto anche l’ultimo residuo del malumore mattutino mi abbandonerà. Anche perché c’è il tempo e la possibilità di cenare tra amici mettendo i piedi sotto un tavolo. Oltre a Gianni e a me ci sono Benedetta Bellini, Maria Elena, Claudia e Cristiana venute a dare man forte da Roma. Una vera cena non ufficiale: non so più da quanto tempo non accadeva. L’effetto sulla mia stanchezza è più forte di quello che avrebbero prodotto tre ore di sonno. Arrivo così a Siena all’una e mezza. Forse ci sarebbe altro da raccontare ma, nonostante la carica d’energia che la cena mi ha dato, sono troppo stanco. Il giorno dopo si attacca alle 8,30 e questa volta nessuna suoneria guasta mi salverà. Buonanotte.

Diario di un candidato