Nella vicenda del Papa non è il diritto di parola ad essere messo in discussione ma l’identità

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Nella vicenda del Papa non è il diritto di parola ad essere messo in discussione ma l’identità

17 Gennaio 2008

L’incredibile
vicenda dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università La Sapienza di
Roma è giunta al termine. Oggi si è svolta la cerimonia che ha consentito al
Ministro Mussi ed alle altre autorità intervenute di affermare solennemente
come una sana laicità imponga il riconoscimento del diritto di parola a
chiunque, e quindi anche al Papa. La vicenda non ha certo giovato all’immagine
interna ed internazionale del nostro Paese ma si potrebbe – paradossalmente –
ritenere sia almeno servita a certificare la definitiva acquisizione da parte
della sinistra, anche radicale, di uno dei principi cardine della civiltà
occidentale. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero!. Per gli eredi%0D
di quella tragica tradizione che è stato nel XX secolo il comunismo è un
risultato importante. Certo rimane quel manipolo di intellettuali impertinenti,
capitanato dall’ineffabile Odifreddi e dal palindromico Asor Rosa, che però può
essere agevolmente ricondotto alla categoria dell’originalità e
dell’infantilismo intellettuale. Il corpo sano del popolo della sinistra è
finalmente divenuto adulto e maturo. Evviva!

In realtà, a leggere
con attenzione le innumerevoli prese di posizione di questi giorni c’è qualcosa
che non convince. L’idea forte che  si è
affermata è questa: l’università è luogo del sapere laico e razionale basato
sul confronto e quindi per definizione non può e non deve censurare nessuno. Le
nostre istituzioni, universitarie e non, sono aperte al confronto fra le idee e
le identità e quindi non censurano nessuno:
Ahmadinejad, Fidel Castro, Vasco Rossi, il Dalai Lama e
nemmeno il Papa. Posta così la questione è non solo riduttiva ma anche falsa.

Se la questione è
quella della censura al Papa allora il problema non esiste. Il Papa non è stato
censurato: il Papa è stato indotto (costretto) a rinunciare ad un invito
ufficiale a partecipare ad una manifestazione di elevato valore istituzionale e
civile. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero non c’entra un fico
secco. Se si accetta questo piano di ragionamento, allora ha ragione Emma
Bonino quando afferma che non si può certo di dire che in Italia il Papa non
possa parlare (anzi, dal suo punto di vista, parla anche troppo)!

Tutti hanno diritto
ad esprimere le proprie idee, ma nessuno può pensare di avere il diritto di
farlo durante l’inaugurazione dell’anno accademico della più importante
università del Paese. Se il Senato accademico della Sapienza avesse invitato
Ahmadinejad o Fidel Castro alla cerimonia
personalmente sarei sceso in piazza per protestare, e non per negare loro il
diritto di parola, ma semplicemente per affermare la totale inopportunità della
loro presenza in quella sede.

Il problema emerso in questa
occasione non è di mera procedura, di democraticità e tolleranza. Il problema è
di contenuti e di identità culturale. La gazzarra scatenata dai 67, in realtà, è la punta
dell’iceberg di un fenomeno assai più profondo che sta pericolosamente
attraversando la società europea ed italiana: il misconoscimento delle proprie
radici e delle proprie identità 
culturali. La deriva è quella del pensiero debole, la convinzione che di
fronte alle sfide della modernità non rimanga altra strada che abbandonare le
proprie radici ed abbracciare una concezione meramente procedurale di valori
quali libertà e democrazia. Una deriva particolarmente grave nel nostro Paese
dove il crollo delle ideologie (in realtà è crollata l’ideologia comunista) ha
lasciato sul campo molti reduci alla disperata ricerca intellettuale di una via
di uscita dal proprio fallimento teorico che non li costringa riconoscere che
in fondo l’avversario aveva ragione. Il laicismo imperante a sinistra altro non
è che la traduzione politica di un disperato bisogno di rassicurazione
psicologico-culturale. La situazione è poi aggravata dall’emergere di una sfida
assai insidiosa proveniente dai paesi islamici. Sfida che la sinistra immagina
di fronteggiare annacquando per quanto possibile la propria identità. (In tal
modo, fra l’altro, ostacolando un dialogo fra culture, civiltà e religioni, il
quale evidentemente presuppone una chiara visione della propria identità)  

Da liberale laico e non credente sono
talvolta in dissenso rispetto alle posizioni assunte dalla Chiesa su specifiche
questioni (ad esempio, sulla fecondazione assistita) ma sono intimamente
convinto che la tradizione cattolica faccia parte integrante della mia identità
culturale che orgogliosamente rivendico. La rivoluzione cristiana
di oltre duemila anni fa è stata parte determinante nella concreta
configurazione del modello culturale ed occidentale sviluppatosi nel corso dei
secoli. La centralità del soggetto, la sacralità della persona, il principio di
responsabilità sono altrettanti valori fondanti di questa sfera di mondo, alla
base delle istituzioni proprie della società aperta. Naturalmente il concreto
sviluppo storico è stato caratterizzato da innumerevoli errori, da forti
contrasti, da profonde contraddizioni che però non possono oscurare il nesso
profondo che si è storicamente sviluppato fra identità giudaico cristiana, libertà
dell’individuo, libero mercato ed istituzioni democratiche. Nello stesso
straordinario sviluppo della cultura occidentale, e – in tale ambito – delle
istituzioni universitarie, un ruolo fondamentale è stato giocato proprio dalla
Chiesa cattolica.

Per queste ragioni è inaccettabile
la posizione di chi contesta la presenza del Papa all’inaugurazione dell’anno
accademico. Non perché conculca il diritto di parola, ma perché nega la nostra storia,
la nostra identità culturale. Appare pertanto incomprensibile l’atteggiamento
di larga parte della cultura cattolica e liberale del nostro Paese la quale non rivendica fino in fondo il ruolo della tradizione cattolica, con la
quale ci si deve confrontare e con la quale si può essere in dissenso, ma alla
quale non può e non deve essere negato pieno diritto di cittadinanza.
Attardarsi su questioni meramente procedurali, reiterare improbabili richiami a
sacrosanti ma inconferenti principi di tolleranza, appellarsi all’autorità di
Voltaire non è solo fuori luogo, ma soprattutto equivale ad avallare posizioni
culturali pericolose, accettare di aver già perso la battaglia prima ancora di
averla combattuta.