Nell’eredità dello storico Ranchetti c’è una poesia sobria e senza fronzoli

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Nell’eredità dello storico Ranchetti c’è una poesia sobria e senza fronzoli

13 Marzo 2009

Michele Ranchetti, milanese, classe millenovecentoventicinque, è scomparso lo scorso anno a Firenze dove da tempo abitava. Docente di Storia del Cristianesimo, collaboratore di Delio Cantimori, e poi suo successore, il prof non è stato solo un accademico di vaglia, ma un autorevolissimo protagonista della scena editoriale e letteraria del secondo dopoguerra, in cui ha svolto un ruolo di stimolatore e operatore importante quanto discreto.

Breve elenco delle sue numerose virtù e inclinazioni. Gran curioso di questioni della psiche, gli si deve, praticamente in toto, la celeberrima edizione delle “Opere di Sigmund Freud” curata da Cesare Musatti per la Boringhieri. Contemporaneamente intrigato dalla ricerca epistemologica è da considerasi il più avveduto scopritore nostrano di Wittgenstein, di cui cura insieme a Michael Nedo una nota biografia per immagini oltre a tradurne, in prima persona, svariati testi:  “Lezioni e conversazioni sull’etica, la psicologia e l’esperienza religiosa” (Adelphi, 1967), “Pensieri diversi” (Adelphi, 1988) e “Momenti del  pensiero. Diari 1930-1932 / 1936-37” (Quodlibet, 1999).

A questo primo mazzo di attività editoriali si affiancano altre importanti curatele. Gli scrittori presi in considerazione vanno da Walter Benjamin a Rilke. Un lavoro insomma di tutto rispetto, a cui si affianca una fattiva attività di saggista in proprio sia su temi di carattere storico religioso sia letterario filosofico. Ma l’aspetto più curioso e singolare della personalità di Ranchetti è il suo essere scrittore in proprio, autore di versi e poemetti. Ufficialmente in qualità di poeta debutta nella maturità.

Nell’ottantotto è la volta de “La mente musicale” (Garzanti) a cui nel 2001 segue “Verbale” e ancora nel 2004 “Sequenze in levare”. E a breve distanza dalla sua scomparsa “Poesie scelte edite e inedite” uscito per i tipi di Anterem Edizioni con l’aggiunta di un saggio di Marco Pacioni. Del libro non si è praticamente parlato eppure si tratta di opera qualitativamente alta. Insieme una sintesi e prima sistemazione di attività lirica intensa quanto discreta, a cui aggiungere una sequenza di testi tardivi e mai pubblicati.

Scrive Pacioni: “L’ordinamento delle poesie, scelte fra quelle edite e inedite di Michele Ranchetti, non ha qui come scopo quello di rintracciare un percorso ideale, ma al contrario mostrare de facto che l’itinerario si spezza continuamente, ripete i propri passi, sembra scegliere una direzione per poi tornare inavvertitamente da dove sembrava essere partito.

Resta valido per questa raccolta postuma l’avvertimento del poeta, che cioè ‘in queste poesie non si dà evoluzione’”. Composizioni statiche e circolari, quindi, dove però questi due termini devono suonare come un più, un valore aggiunto, e non un meno. E il più in questione si può riassumere nella particolare intensità, di carattere anche teoretico e religioso, della sua scrittura. Un’intensità che fa il paio con la secchezza e l’apparente povertà dei mezzi espressivi a cui Ranchetti ricorre.

Si è di fronte, insomma, a versi nudi. Forti di un ritmo che è giocato, per intero, per vie interne. Si veda l’esemplare e inedita composizione: “Il prodigio di te demente/ arresta la mia parola/ e la mente e mi accusa/ il tuo tacere assoluto/ amico mio,/ questo è il tuo amore eterno/ che tu offri e non devo/ interrogare la tua speranza./ E’ la mia, la stessa e vivo/ e cresco per una luce”. Un ritmo difficile, modulato attraverso un’imperiosa necessità interiore.