Netanyahu deve scegliere tra l’America e i suoi alleati di destra
29 Marzo 2010
Gerusalemme. Sono 10 le domande che il presidente americano Barack Obama, appena rinfrancato dal sì del Congresso alla riforma sanitaria, ha posto al premier israeliano Benjamin Netanyahu incredulo nel più rude faccia a faccia tra i leader dei due Paesi che si ricordi a memoria di uomo.
La lista include la riapertura dell’Oriental House, il quartier generale dell’Autorità palestinese a Gerusalemme, la sospensione della demolizione di case abusive nella parte araba della città santa, il trasferimento ai palestinesi di porzioni di territorio ad est della Linea Verde, ripristinando il quadro di sicurezza esistente prima dello scoppio della seconda intifada.
Richieste difficili da mandar giù per una coalizione sbilanciata a destra, come quella messa assieme da Netanyahu, ma tutto sommato non impossibili da digerire. A far suonare l’allarme rosso sono piuttosto gli ultimi due dei “dieci comandamenti” di Obama. La richiesta di congelare le costruzioni a Gerusalemme Est, inclusi i quartieri ebraici, Gilo, Pisgat Ze’ev, Ramat Shlomo e quella di includere tutti i nodi del conflitto nella lista degli argomenti da affrontare nei “proximity talks”, i negoziati indiretti che la Casa Bianca vuole vedere entrar nel vivo quanto prima. Si tratta di un cambiamento radicale della politica dalle precedenti amministrazioni Usa. Innanzitutto, viene contraddetta la lettera d’intenti consegnata nel 2004 dal presidente George Bush all’allora premier Arial Sharon come premio per il disimpegno da Gaza, nella quale si fa esplicito riferimento ai cambiamenti intervenuti nei Territori dal 1967 ad oggi. In secondo luogo, l’amministrazione Obama mette in soffitta anche lo schema formulato da Bill Clinton a Camp David: quartieri ebraici di Gerusalemme ad Israele, quartieri arabi ai palestinesi.
Netanyahu si è convinto che le domande di Obama siano in realtà la punta di un iceberg che rivela l’intenzione del capo della Casa Bianca di imporre una soluzione del conflitto in tempi brevi, meno di due anni. E vede nello schema dei negoziati indiretti a tutto campo il grimaldello Usa per porre una costante pressione su Israele e mantenerla nell’angolo.
Una situazione in cui Netanyahu si è in buona parte cacciato con le sue mani, varando un governo che sul piano diplomatico è condannato all’immobilismo. Con una amministrazione molto più favorevole, quella Bush, anche Sharon, sconfitta l’ondata di terrorismo, avvertì il rischio di una soluzione imposta dall’alto; l’accordo di Ginevra. Da generale reagì contrattaccando e tirò fuori dal suo cilindro, in solitudine come si addice ad un leader, il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza.
Oggi il quadro nel quale si muove Israele è ancora più problematico. La disputa con gli Stati Uniti sulle costruzioni a Gerusalemme est nasconde divergenze più profonde. In primo luogo, il giudizio sulla capacità della leadership palestinese di Abu Mazen e del premier Salam Fayad di governare uno Stato e metterlo al riparo dall’assalto di Hamas. La Casa Bianca , che ha lavorato negli ultimi 4 anni a rafforzare l’apparato di sicurezza palestinese, è convinta che le condizioni in Cisgiordania ci siano per il grande salto. Netanyahu è molto più scettico. La seconda divergenza di fondo riguarda il peso da attribuire alla questione palestinese. Alti dirigenti statunitensi hanno sostenuto recentemente che il perdurare del conflitto danneggia gli interessi americani nella regione. Il generale David H. Petraeus ha detto chiaro e tondo che influisce sulle possibilità di successo della linea di stabilizzazione Usa in Iraq e in Afghanistan. Nell’establishment israeliano prevale invece un’analisi rovesciata. La nascita di uno stato palestinese avrebbe un impatto pressoché nullo sulle altre crisi regionali, e la crescita del radicalismo, fomentato dall’Iran, perseguirebbe.
Date queste premesse, il rischio è che Stati Uniti ed Israele entrino in pericolosa rotta di collisione. Netanyahu è chiamato a scegliere: il rapporto vitale con gli Stati Uniti o i suoi problematici alleati di destra. Il ministro della difesa Ehud Barak sta costruendo una scialuppa di salvataggio. Laburisti a lui vicini a hanno apertamente auspicato l’ingresso di Tzippi Livni in una coalizione ampiamente rimaneggiata. E la leader di Kadima non chiude le porte.