Netanyahu vuol far votare gli israeliani all’estero tra convenienze e polemiche

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Netanyahu vuol far votare gli israeliani all’estero tra convenienze e polemiche

11 Febbraio 2010

Gerusalemme. “Immorale”, ha tuonato Tzippi Livni riferendosi al disegno di legge annunciato da Netanyahu e Lieberman sul voto degli israeliani all’estero. E ha promesso, il leader dell’opposizione, di mobilitare la società civile contro quello che è un impegno scritto nero su bianco nel programma di governo. Primo risultato, la firma di una petizione contro il voto all’estero da parte di un cospicuo drappello di ufficiali della riserva, tra essi l’ex capo di Stato Maggiore gen. Amnon Lipkin-Shahak. 

Il voto degli israeliani all’estero suscita forti passioni. L’acceso dibattito tocca un nervo sensibile del Paese: il diritto di chi ha scelto le spiagge di Miami o le confortevoli torri di Manhattan di immischiarsi negli affari di un Paese in guerra permanente con i suoi vicini.

A imporre l’agenda del governo è stato Adigdor Lieberman. Il ministro degli Esteri e leader del partito ultranazionalista Israel Beitenu si ritiene, per le sue origini moldave, il legittimo rappresentante della forte minoranza russa. Ed è convinto, probabilmente a ragione, che il suo partito trarrebbe vantaggio dal voto dei circa 100 mila immigrati russi che dopo aver fatto “alyia”, ovvero ottenuto la cittadinanza israeliana in base alla legge del ritorno, hanno scelto di fare fortuna altrove. Ha convinto Netanyahu che anche il suo Likud si rafforzerebbe attingendo al grande serbatoio di voti  statunitense, i circa 700 mila israeliani residenti a New York, Florida e California.

Non esiste uno studio sull’orientamento del voto all’estero, ma è lecito supporre che la destra ne trarrebbe vantaggio. E’ risaputo infatti che l’amore per la terra di Israele e la fermezza contro ogni compromesso territoriale sono più forti tra chi non è chiamato a difendere Israele con le armi. Lo stesso vale ancor di più per la diaspora. Non a caso Abraham Yehoshua polemizzò qualche tempo fa con la lobby ebraica americana, finaziatrice di progetti negli insediamenti, sostenendo che con la nascita di Israele esiste una scala nell’identità ebraica che pone al vertice chi ha scelto di far ritorno alla terra dei Padri e ne condivide al 100 per cento il destino.  

E proprio qui è il punto. Se è vero che la maggior parte delle democrazie occidentali ha permesso agli emigrati di votare (buon ultima anche l’Italia, con effetti opposti a quelli che il centro destra aveva predetto), è altrettanto vero che in Israele la questione ha una valenza completamente diversa. Con il voto, si sceglie la classe politica chiamata a decidere su questioni “esistenziali”: la sicurezza di uno stato circondato da Paesi nemici senza neppure confini internazionalmente riconosciuti, la vita di soldati di leva, il costo di una guerra e il rischio della pace. Votare senza aver fatto il servizio militare o senza avere l’obbligo della riserva o anche solo senza dover inviare i propri figli alle armi può suonare effettivamente, come sostiene la Livni, immorale. La leader di Kadima per questa battaglia può contare anche su alcuni partiti della coalizione di governo: i laburisti di Barak e lo Shas, il partito ultraortodosso. I primi non hanno nulla da guadagnare dal voto all’estero. I secondi  temono l’effetto boomerang: un compromesso possibile che apra le porte del voto all’estero solo per chi ha fatto la leva. Il timore di Shas  è che il principio possa in futuro essere esteso anche ai residenti in Israele. E la stragrande maggioranza della sua base elettorale, gli ultraortodossi, non va alle armi adducendo motivi religiosi.