Netanyahu vuole governare senza veti e fare la pace senza tabù

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Netanyahu vuole governare senza veti e fare la pace senza tabù

23 Febbraio 2009

Gerusalemme. La strada verso un governo di unità nazionale rischia di trasformarsi in un vicolo senza uscita. I margini si fanno sempre più stretti. Tzipi Livni ha posto un insidioso macigno sul cammino di Benjamin Netanyahu: la formula “due Stati/due popoli” come condizione per la partecipazione di Kadima al futuro esecutivo. La questione naturalmente non è semantica. Ben Caspit ci scherza su dalle colonne di "Maariv" e ricorda che Olmert ha formato il governo promettendo "due stati per due popoli e ha portato due guerre per un solo popolo in tre anni". Del resto, se due leader politicamente da sempre agli antipodi come Ariel Sharon e Shimon Peres nel 2001 formarono un governo di emergenza nazionale, in piena Intifada dei kamikaze, perché non dovrebbero riuscirci Netanyahu e la Livni, che in fin dei conti provengono dalla stessa costola della destra, il Likud?

La vera difficoltà non è nel programma ma nella composizione del governo. Netanyahu lo vorrebbe il più ampio possibile, per aumentare i suoi margini di manovra. La Livni è disposta ad inghiottire il rospo solo se Kadima avrà potere di veto,  dunque solo se la coalizione sarà ristretta. Netanyahu, insomma, dovrebbe liberarsi di alcuni dei suoi “alleati naturali”. Non solo dell’Unione Nazionale, il partito del movimento dei coloni, del quale il leader del Likud farebbe volentieri a meno, ma anche del cosiddetto “blocco religioso” (Shas, United Torah e Casa Ebraica) o, in alternativa, di Israel Beiteinu di Avigdor Lieberman. Solo così, Kadima, con i suoi 28 seggi, sarebbe determinante in qualunque decisione di governo. Netanyahu avrebbe una navigazione più facile nelle turbolente acque della diplomazia internazionale. Ma si consegnerebbe a una rivale, la Livni, che non fa certo mistero delle sue ambizioni.

D’altro canto, cresce la pressione  sui due proclamati vincitori delle elezioni del 10 febbraio per spingerli a mettere insieme le loro forze. Le cancellerie europee hanno fatto sapere di aver raccolto voci arabe, e non tra le più radicali, che chiedono per Israele lo stesso trattamento riservato ad Hamas in caso di un governo di destra. L’inviato del presidente Obama, George Mitchell, si appresta a compiere il suo secondo viaggio nella regione, dei cui frutti si può dubitare dato che a Gerusalemme non ha ancora un interlocutore.

Ma il processo di pace in Medio oriente sarebbe davvero minacciato da un governo Netanyahu? Alla domanda non è facile dare una risposta univoca. Sicuramente i negoziati con il presidente Abu Mazen potrebbero ripartire dal punto dove si sono fermati se a condurli fosse Tzippi Livni. D’altra parte è una dato di fatto che il governo Olmert, che pure era nato col mandato e i numeri per raggiungere un accordo con i palestinesi e compiere un ampio ritiro dalla Cisgiordania, ha fallito in buona parte per cause di forza maggiore: la presa del potere da parte di Hamas nella striscia di Gaza ha inferto un colpo severo  alle speranze che, anche qualora il compromesso venisse raggiunto, si potrebbe poi metterlo davvero in pratica sul terreno.

Netanyahu dal canto suo si fa picca di descriversi come un pragmatico. Per questo racconta spesso un aneddoto: quando Obama , allora candidato, lo incontrò a Gerusalemme, gli avrebbe detto: “Io e lei abbiamo molto in comune. Io sono partito da sinistra e mi sono mosso verso il centro. Lei è partito da destra e si è mosso verso il centro”.

In campagna elettorale, Netanyahu ha promesso una ‘pace economica’ con i palestinesi. E dopo aver ricevuto dal presidente Peres l’incarico, ha detto che Israele deve far fronte alla più grave minaccia alla sua esistenza dai tempi della guerra di indipendenza del 1948, riferendosi al nucleare iraniano. C’è un nesso tra la minaccia iraniana e la pace solo economica con i palestinesi.

Netanyahu è scettico sulla possibilità di raggiungere un accordo  complessivo finché l’Iran sarà una minaccia, anche attraverso i suoi alleati Hamas e Hetzbollah, per la sicurezza di Israele. In campagna elettorale ha escluso qualunque concessione territoriale. Ma durante il suo precedente governo, aveva esplorato la possibilità di un’intesa con la Siria che prevedeva la restituzione delle alture del Golan. E da premier, nel 1999, strinse un accordo con Arafat che divise tra israeliani e palestinesi la sovranità su Hebron, uno dei nodi ideologico-religiosi del conflitto, per la presenza  della Tomba dei Patriarchi. Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all’Onu e vicino a Netanyahu, spiega: “Il Likud è un partito che negli ultimi 15 anni ha compiuto un lungo cammino: da un rigido impegno a mantenere tutti i territori a quello di ottenere confini difendibili in un Medio Oriente dove predomina l’incertezza”.