
Niente “peak oil”, è la politica che fa il prezzo del petrolio

13 Novembre 2007
Quota 100 non fa paura. L’amministratore delegato dell’Eni,
Paolo Scaroni, intervenendo al Congresso mondiale dell’energia di Roma, ha
ribadito che “i prezzi del petrolio dovrebbero scendere dai picchi che hanno
oggi”. “La nostra capacità di previsione è modesta – ha aggiunto – perché sono
eventi che dipendono da fattori al di fuori del nostro controllo, prima di
tutto la situazione internazionale, che è difficile prevedere”. Non c’è
contraddizione, tra queste affermazioni? Apparentemente sì: come può il capo
della compagnia di San Donato Milanese sostenere, al tempo stesso, che il
barile scenderà ma che non è possibile dire come e quando? La risposta sta
nello scenario. In un mercato globalizzato come quello petrolifero, l’aumento
dei prezzi indica una crescente scarsità in relazione alla domanda. Questo
parrebbe dar ragione a coloro che sostengono non solo che il greggio sia una
risorsa finita, ma anche che esso sia prossimo al suo picco (peak oil), cioè al momento –
coincidente col prosciugamento della metà dei giacimenti – oltre cui la
produzione è destinata a calare.
La
questione è complessa e merita un approfondimento. I teorici del picco, come nota
l’economista esperto di energia Michael C. Lynch in un Occasional Paper
dell’Istituto Bruno Leoni, si affidano “all’interpolazione di curve sui dati storici anziché adottare
strumenti più sofisticati: nessuno dei due sistemi prende in considerazione gli
investimenti o le perforazioni come precursori della scoperta o della
produzione”. Proprio gli investimenti, che dipendono dalla liquidità e dalle
aspettative degli operatori del settore, sono l’elemento fondamentale. In un
certo senso, il barile segue un ciclo in cui i prezzi alti di oggi sono figli
delle quotazioni stracciate di ieri – che rendevano impossibile la ricerca di
nuove riserve – e probabilmente condurranno a una contrazione del valore del
greggio domani.
E’
certamente vero che il greggio esistente nel sottosuolo è una quantità finita.
Ma giova ricordare due fatti: da un lato, gran parte del pianeta resta
inesplorato, e molti giacimenti noti non sono sfruttati; dall’altro, se e
quando il petrolio effettivamente scarseggerà, il suo prezzo continuerà a
salire, dando un vantaggio competitivo alle altre fonti e incentivando la
ricerca di alternative oggi ignote. E’ assai probabile che queste emergeranno
ben prima che l’oro nero stia veramente esaurendosi, e quindi – in senso
economico – si può dire che esso è virtualmente infinito.
Si
potrebbe obiettare che, forse, ci troviamo esattamente in questa condizione, e
che il barile sta affrontando l’ultima ascesa prima di terminare. Molto
probabilmente non è così: e questo conduce al secondo punto sollevato da
Scaroni. Gran parte del mondo è tuttora quasi vergine, dal punto di vista
petrolifero; e molte risorse note si concentrano in paesi ostili agli
investimenti occidentali, caratterizzati da mercati chiusi, e quindi
inefficienti nello sfruttamento delle loro riserve. E’ qui che sta la vera
incertezza: quali strategie seguiranno queste nazioni nei prossimi anni? Se si
apriranno gradualmente, il prezzo del petrolio scenderà più rapidamente. In
caso contrario potrebbe mantenersi alto per molto tempo. Specularmente, come si
comporterà il mondo sviluppato? Troverà una soluzione, per esempio, alla sempre
tesissima situazione iraniana? Riuscirà ad aver ragione dei colpi di testa del
venezuelano Hugo Chavez? Saprà raggiungere un equilibrio ragionevole con la Russia?
Sono tutte questioni cruciali eppure, per ora, senza risposta. Ma da esse, più
che da ogni altra cosa, dipende il nostro futuro energetico. Quello che è
essenziale comprendere – per evitare di compiere scelte sbagliate – è che il
futuro del petrolio dipende principalmente da variabili politiche, e queste
sono soggette alla massima incertezza e nascoste dalle nebbie più fitte. Non è
il mercato che funziona male: è la politica che ci mette lo zampino.