“Niente sarà più come prima”: il Coronavirus come pretesto per attaccare l’Occidente

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“Niente sarà più come prima”: il Coronavirus come pretesto per attaccare l’Occidente

“Niente sarà più come prima”: il Coronavirus come pretesto per attaccare l’Occidente

12 Maggio 2020

Uno tra i segni più allarmanti delle nefaste conseguenze politiche e culturali (che si aggiungono a quelle sanitarie ed economiche) provocate in Occidente dalla pandemia Covid-19 è l’insistente luogo comune, diventato un vero e proprio slogan, veicolato da politici, intellettuali e settori della “società civile” secondo cui dopo questa emergenza “niente sarà più come prima”. È un motto, questo, che in realtà identifica immediatamente il tentativo di utilizzare da più parti strumentalmente lo sconquasso causato dal virus come pretesto, “cavallo di troia” per propagandare visioni ideologiche che in realtà con la pandemia hanno in sé ben poco a che fare; come l’occasione, insomma, per invocare un mutamento rivoluzionario.

Naturalmente, da un certo punto di vista l’affermazione secondo cui dopo il Coronavirus “niente sarà come prima” sarebbe addirittura scontata. È prevedibile che un fenomeno storico di simili dimensioni e ripercussioni cambierà per molti versi le nostre società. È evidente che la pandemia segnerà la fine di una globalizzazione “facile”, “low cost”. I rapporti tra Occidente e Cina, in particolare, ne risentiranno profondamente sul piano economico e politico. Inoltre, come è avvenuto nei decenni scorsi in seguito all’attacco del terrorismo jihadista, anche in questo caso i nostri standard di sicurezza, protezione, prevenzione dovranno necessariamente compiere un salto di qualità. I traffici, gli spostamenti, i trasporti dovranno sottostare a controlli sanitari molto più rigorosi. I confini dovranno essere meno permeabili. Gli stati dovranno attrezzarsi per essere autosufficienti in caso di emergenza epidemica per quanto riguarda reparti ospedalieri, medicinali, dotazioni di protezione, strumenti per la diagnostica di massa rapida e il monitoraggio. Gli spazi di lavoro, quelli della socialità, quelli della formazione dovranno essere in parte riprogettati per prevenire e combattere malattie infettive dall’incidenza più frequente e preoccupante dovuta alle dinamiche del mondo globalizzato.

Ma il “niente sarà più come prima” a cui ci riferivamo non è questo. Anzi, in genere chi in queste settimane adotta questa frase come motto si interessa ben pocoai necessari mutamenti che abbiamo citato, se non guarda addirittura a quelle questioni con malcelato fastidio.

La formula ammonitoria che individua nel virus uno spartiacque epocale rappresenta invece, oggi, soprattutto il catalizzatore di svariate ideologie ed utopie che in Occidente si scagliano contro il modello di società e lo “stile di vita” occidentale. Essa è divenuta il vessillo agitato speranzosamente da tutte le correnti di pensiero che odiano l’economia di mercato, i regimi politici fondati sulle libertà e la responsabilità individuale, la società dei consumi.

Chi sostiene che dopo la pandemia l’Occidente sarà costretto a rivedere radicalmente il proprio “modello di sviluppo” vuole dire in realtà che il morbo cinese (che per lei/lui naturalmente cinese non è, ma magari “amerikano”) è stato forse una disgrazia, ma anche un’opportunità provvidenziale: un’avvertimento di Dio – o di Madre Terra – a società tutte prese dal perseguimento di fini egoistici, segnate da strutturali ingiustizie e dedite ad un dissennato sfruttamento di risorse, affinché si pentano dei loro peccati, riprendano la retta via, tornino a distinguere le cose essenziali da quelle inutili.

Questo auspicio unisce i nostalgici tardo-marxisti che, ancora una volta, sperano di assistere alla crisi strutturale del capitalismo, come nel 1929 e poi nel 2008; i fautori della “decrescita felice”, persuasi che un collasso della globalizzazione porterà ad un rallentamento della crescita, ad una restrizione degli scambi, alla contrazione dei mercati, al “piccolo è bello”; i moralisti convinti che una società meno consumistica redistribuisca le risorse e renda meno poveri i più poveri; gli ambientalisti anti-umanisti speranzosi che un’umanità meno industrializzata e ricca, e magari anche un po’ sfoltita demograficamente, finalmente recherà meno danni all'”eco-sistema”, alle “forme di vita non umana”, foreste pluviali e ghiacciai, felci e delfini. Una congiunzione delle ultime due tipologie, con punte tra il surreale e il ridicolo, si ritrova nell’appello “No al ritorno alla normalità” lanciato su “Le Monde” qualche giorno fa da un folto gruppi di “vip” dell’intrattenimento mondiale, capeggiati da Juliette Binoche, Madonna e Robert De Niro.

Ma la tesi del virus come occasione di cambiamento radicale della società occidentale – anche in virtù della sua radice schiettamente millenaristico-apocalittica – fa breccia anche in molti ambienti religiosi cristiani, e in particolare cattolici, dove riceve un autorevole imprimatur proprio dai ripetuti pronunciamenti dell’attuale capo della Chiesa, papa Francesco, in favore di cambiamenti radicali dei modelli di sviluppo, e della sua convinzione che il Coronavirus abbia rivelato “un mondo malato”.

Si può dire che la crisi presente stia favorendo come non mai il riemergere, in parte dell’opinione cattolica, di un risentimento di fondo verso le democrazie liberali occidentali, insieme alla aspirazione rinnovata ad una società comunitaria “organica”, liberata dagli interessi privati, dall’edonismo, dal consumismo, e riconciliata con l’ambiente. Sentimenti alla luce dei quali il contagio pandemico appare come un tremendo ma veritiero vendicatore. E che uniscono cattolici “sociali”, tendenti a identificare l’evangelizzazione con la lotta per l’emancipazione di classi e popoli oppressi, e cattolici antimodernisti-reazionari, ferocemente avversi ad ogni forma di liberalismo individualistico e nostalgici di un autoritarismo paternalistico, che ponga la salute (del corpo e dell’anima) al di sopra delle vuote aspirazioni soggettive e del “diabolico” pluralismo. Un modello di governo che a molti di loro è sembrato realizzato, in questi mesi, dalla politica di restrizioni delle libertà civili in nome dell’emergenza sanitaria adottata da alcuni governi nazionali e locali, in particolare in Italia. Gli uni e gli altri si rallegrano – nemmeno tanto segretamente – nel vedere i negozi chiusi, la socialità ridotta al minimo, l’edonismo sospeso “sine die”, la società ridotta ad una sorta di grande campo di rieducazione familista. Sentimenti radicali che non sono, per fortuna, rappresentativi di una parte cospicua – si direbbe ancora maggioritaria – del cattolicesimo italiano, come del cristianesimo europeo: preoccupata soprattutto dei concreti rischi di impoverimento legati alla pandemia, così come delle limitazioni assolutamente inedite imposte, durante il “lockdown”, alla libertà di culto.

Alla variegata coalizione neo-millenarista, neo-primitivista che confida nell’epidemia come redentrice e purificatrice dell’Occidente corrotto, le società liberaldemocratiche industrializzate possono reagire efficacemente – quando, speriamo il prima possibile, comincerà la ripresa post-pandemica – soltanto ritrovando, contro la tentazione dell’autofustigazione, il profondo significato di promozione umana incarnato proprio dal modello di sviluppo occidentale: quello che attraverso la massima crescita possibile, la ricerca del profitto e la competizione regolata, ha portato le società che lo hanno adottato al più alto livello di salute, ricchezza, sicurezza, protezione e giustizia sociale mai riscontrato nella storia umana.