Non avete mai provato neanche un po’ di nostalgia per gli anni Ottanta?

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Non avete mai provato neanche un po’ di nostalgia per gli anni Ottanta?

05 Aprile 2010

Furono gli anni del reaganismo e della Thatcher, di glasnost e perestrojka; ma, in Italia, furono soprattutto gli anni della “Milano da bere”. Perché lo slogan della pubblicità di un amaro, comparso per la prima volta in tivù nel 1987, ha indelebilmente marchiato un decennio spazzato via dallo scandalo di Tangentopoli. Quella degli Ottanta è forse l’ultima decade a vantare un’identità forte, a poter essere racchiusa in pochi facili concetti: prima vennero i Settanta dell’impegno e della politicizzazione della vita; poi seguirono gli anni dell’edonismo e del ripiegamento nel privato. Non è perciò casuale il sottotitolo “L’Italia tra evasione e illusione” voluto dall’editore Bevivino per un recente volume scritto da Luca Pollini (Gli Ottanta, pagg. 424, euro 18). Al di là di alcune banalizzazioni e di giudizi storico-politici talvolta eccessivamente affrettati, si tratta di un ricco ed accurato dizionario, vero vademecum grazie al quale affrontare molteplici aspetti del decennio del riflusso: dalla politica interna ai cambiamenti internazionali, dalla musica al cinema, dalla tv allo sport, dalla moda alla letteratura, Pollini ha cercato di condensare e far rivivere l’Italia di un’intera decade.

Anni segnati da un’accesa discontinuità rispetto all’epoca precedente: «quella che – ha scritto Ernesto Galli della Loggia – solo poco tempo prima era stata giudicata una fra le società più politicizzate, o addirittura la più politicizzata dell’Occidente, sembrava esprimere ora un massiccio rifiuto della politica». L’ubriacatura ideologica dei Settanta, il clima politico avvelenato, l’impazzare del terrorismo concorsero alla saturazione degli italiani, desiderosi di potersi finalmente divertire riappropriandosi della leggerezza e della loro stessa intimità.

Il riflusso, ha raccontato Paolo Morando nel suo bel libro Dancing days (Laterza, 2009) incominciò tra 1978 e ’79 quando l’uccisione di Aldo Moro, allo stesso tempo apice e abisso della lotta armata in Italia, fece emergere l’esasperazione di quella maggioranza silenziosa desiderosa di tornare ad una vita normale, lontana dagli slogan delle contestazioni studentesche e attenta ad intercettare il nuovo vento che spirava dall’America, si trattasse di disco music o di programmi televisivi. E così, mentre il PCI iniziava la sua parabola discendente perdendo voti in favore dei socialisti e dei radicali (ai quali andavano soprattutto le simpatie dei giovani, sedotti dalle istanze modernizzatrici e libertarie di Pannella & C.); mentre lo scandalo P2 travolgeva il governo Forlani e dava l’avvio al pentapartito e ai primi governi non guidati da esponenti democristiani, portando dapprima Spadolini e poi Craxi al ruolo di premier; e infine, mentre Solidarnosc in Polonia e le riforme gorbacioviane in Unione Sovietica minavano o quantomeno mettevano in discussione la fede marxista-leninista, la società italiana assisteva ad una definitiva affermazione di quella che Augusto del Noce definì la “società del benessere”.

Erano gli anni di Milano “capitale morale” del paese, non solo in quanto centro propulsivo del craxismo ma soprattutto perché sede finanziaria nazionale (è del 1986 il boom del mercato borsistico) e polo internazionale della moda, del design, della creatività pubblicitaria. Al pret-à-porter di Giorgio Armani, già consacrato a livello planetario, si affiancarono il gusto stravagante di Gianni Versace, la dissacrazione di Moschino e la raffinatezza di Ferré. E le griffe italiane furono le prime ad adeguarsi al cambiamento dei tempi declinato sia come mutamento del gusto ma anche come capacità di fare delle maison aziende che macinassero utili. Ad alimentare il fascino della moda, un dirompente sistema di advertising divenuto il principale canale di popolarizzazione degli stili: vestire firmati non era più soltanto appannaggio dei ricchi e famosi ma era alla portata di porzioni crescenti della popolazione. Tra essi, i giovani: dismessi i panni dell’impegno, le nuove generazioni cercavano una propria identità dietro alle divise delle “tribù” di appartenenza. Accanto ai punk, residuo della rabbia dei Settanta e ai dark, si affermavano i “paninari”, veri interpreti dello spirito del tempo, a caccia degli ultimi accessori alla moda da sfoggiare in discoteca o davanti al Burghy, versione italica del Mc Donald’s e del rito del mangiare veloce.

L’Italia che si voleva divertire lasciandosi alle spalle l’intensità drammatica degli anni di piombo si sfogò soprattutto con l’avvento delle televisioni private i cui spettatori, alla fine del 1980, toccarono la cifra record di dieci milioni: da Canale 5 a Rete 4, da Telemontecarlo a Italia 1, i canali commerciali contribuirono a diffondere nuovi umori collettivi individuando le mutate esigenze del pubblico. Nacquero così programmi di grande successo, dai più leggeri, “Il gioco delle coppie”, “Il pranzo è servito”, “Ok il prezzo è giusto”, allo sguaiato e celeberrimo “Drive In” fino ai molti telefilm, cartoni animati, serie tv e telenovele in grado di tenere incollati davanti al tubo catodico tanto i neonati quanto gli anziani. Ma nei consumistici anni Ottanta si produsse anche un aumento significativo delle vendite librarie, l’affermazione di nuovi periodici (due per tutti: Il Venerdì e Sette, supplementi de “la Repubblica” e del “Corriere della Sera”), l’incremento delle vendite musicali nonché la conferma di una creatività che avrebbe dato ottimi risultati nel campo della musica, del design, dell’architettura. L’ottimismo edonista di quegli anni sarebbe franato di fronte allo sgretolarsi dell’ordine internazionale e al venir meno della “repubblica dei partiti” lasciando spazio ad un’epoca che ci è ancora difficile definire.