Non basta appoggiare i dissidenti, bisogna capire le ragioni del consenso

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Non basta appoggiare i dissidenti, bisogna capire le ragioni del consenso

12 Dicembre 2007

Nei paesi islamici il vero nodo del problema non è il dissenso, ma il consenso: l’esistenza di consistenti basi sociali d’appoggio che sono la vera forza dei regimi. E’ chiaro che questa è una provocazione, ma è una provocazione idispensabile e fertile. Oggi come mai è indispensabile avere chiarezza su questo punto, che nulla toglie alla straordinaria testimonianza, politica e umana, che i dissidenti del mondo musulmano oggi rappresentano. L’eccellente conferenza di Roma sul dissenso e la lotta per le democrazie nei paesi musulmani ha permesso a tanti dissidenti del mondo musulmano di avere un palco e di potere levare alta la loro voce. Iniziativa dunque assolutamente utile, preziosa, che ha fatto piazza pulita di tante mezze verità, di tante abitudini politically correct che impantanano soprattutto il pensiero politico e i media dell’Europa.

Ma su un punto –essenziale- la voce dei dissidenti non riesce a fare luce: perché in Iran –innanzitutto- ma anche i paesi come la Siria o l’Egitto i regimi riescono tutt’oggi a contare su una loro base di consenso politico (e quindi anche elettorale). Un dissidente –ieri i sovietici, oggi i musulmani- è naturalmente portato –per la natura stessa della rottura dell’obbedienza che lo spinge- a denunciare le forme di repressione e di coercizione economica esercitata dai regimi. Ma se ci fermiamo a questo –e sino a oggi ci siamo fermati a questo- non cogliamo la complessità del problema.

 A trent’anni dalla rivoluzione concettuale di Furet e De Felice, dopo centinaia di studi sulle fasce di consenso popolare ai totalitarismi del novecento, non abbiamo ancora iniziato a applicare lo stesso schema interpretativo ai totalitarismi del duemila e diamo così spiegazioni riduttive sulla natura del totalitarismo islamico, in tutte le sue articolazioni. Sostenere, come quasi tutti i dissidenti islamici ci dicono, che i regimi musulmani si reggono sul binomio repressione-leva economica, ci porta dritti dritti alle analisi monche della sinistra mondiale nei confronti dei regimi nazi-fascisti degli anni trenta, con simili, disastrose conseguenze.

Non è così, ed chiarissimo che non è così proprio in Iran, unico regime islamico frutto di una sollevazione popolare e non di un golpe. Ahmadinejad e il regime degli ayatollah nelle sue varie articolazioni (incluso quindi il più che totalitario Rafsanjani) godono infatti nel paese dell’appoggio di una vasta platea di iraniani. Anche di giovani, fortemente motivati ideologicamente. Una platea minoritaria, beninteso, che arriva al 20-30% del paese, ma che comunque è forte della pressione di decine di milioni di iraniani. I bassiji che bastonano gli studenti, così come i pasdaran, non sono solo quei prezzolati che troppe analisi monche ci presentano. Purtroppo, a centinaia di migliaia, ci credono. Certo, è vero che il populismo del welfare islamico che distribuisce i profitti del petrolio a decine di milioni di iraniani sotto forma di reddito, fa la sua parte. Ma sostenere che questo blocco sociale segua i deliri di Ahmadinejad per basse ragioni di sodli, equivale a riproporre la fola –che pure fu diffusa per decenni- che ci raccontava che Auschwitz è stata conseguenza della proletarizzazione dei ceti medi causata dalla crisi del ’29. Auschiwtz era un’utopia e chi oggi ne coltiva una simile, come Ahmadinejad, in nome di una Apocalisse imminente, non può non a caso che negarne l’esistenza, nella volontà di replicarla su Israele. <%2Fp>

 In Siria, paese dalle dinamiche diversissime, per fare tutt’altro esempio, non vi è dubbio che la componente cristiana –forte del 5-10% della popolazione, a seconda delle statistiche- sia saldamente solidale col feroce regime Baath di Beshar al Assad. Si leggano i recenti documenti ufficiali dei sinodi dei vescovi delle varie chiese che fanno capo a Roma, e se ne avrà una sconcertante conferma. Così è in Egitto, così in Pakistan, così Hamas in Palestina.

 La recente guerra civile di Gaza ha ridimensionato, sino a ridicolizzarla, l’interpretazione riduttiva che riconduceva l’insuccesso elettorale di al Fatah alla  corruzione dei suoi leader, Arafat in testa. Questo spiegava –male- l’esito delle elezioni politiche, ma solo un consistente, reale, diffuso, appoggio, una reale identificazione di larghi strati popolari spiegano perché, al momento giusto, Hamas abbia potuto schiacciare la rappresentanza politica di al Fatah e Gaza, sterminarne i quadri, prendere il pieno controllo della Striscia, senza che una mano popolare si sia levata per difendere gli sconfitti.

 E i Fratelli Musulmani? Oggi, da un punto di vista superficiale, li si deve arruolare tra i “dissidenti” nei confronti di tanti regimi islamici (quello siriano e egiziano inclusi). Ma se mai andassero al potere –e possono andare al potere a seguito delle implosioni di questi regimi, come ben si è visto in Algeria nel 1991, non vi è dubbio che costruirebbero un regime totalitario, liberticida, per di più con larga base di consenso popolare.

 Proprio lavorando su questa apparente contraddizione rappresentata dai Fratelli Musulmani –dissidenti oggi, oppressori e totalitari domani- si arriva al nocciolo del problema: la straordinaria popolarità che cresce nel mondo musulmano di una visione salvifica del mondo rappresentato dall’Islam fondamentalista (Islam a cui peraltro sempre più si appoggiano tutti i regimi, quelli “laici” della Siria e dell’Egitto in primis). Popolarità che ha una sua forte, fortissima motivazione –e qui il discorso si fa drammatico e scabroso- nella crescente convinzione della necessità di mantenere la donna in un regime di semi-cittadinanza e di costruire una società basata su una sorta di jihad contro le donne, risposta rozza, ma ineluttabile, all’emancipazione e al protagonismo delle donne nelle società moderne. Chi ha vissuto i primi mesi della rivoluzione trionfante in Iran, ha chiarissimo il senso di una “revanche” maschilista contro le donne che si cristallizza nella riproposizione di una sharia codificata tra l’ottavo e il nono secolo. Ma anche il jihad va forte, tra le masse musulmane: non solo nella sua variante terrorista, ma proprio come concezione della vita basata su rapporti di forza violenti (in primis dentro il nucleo famigliare) e quindi sul “proselitismo attraverso la spada”, come denunciò Benedetto XVI° a Ratisbona, in tutti i contesti, ivi compreso quello della libertà d’opinione. Un dato giuridico concretizza questa tendenza al jihad come strumento regolatore delle società musulmane, con largo consenso popolare: ovunque, Pakistan per primo e poi i “laici” Algeria, Siria e Egitto, e altrove, negli ultimi trenta anni le legislazioni punitive –anche con la morte- dell’apostasia si sono moltiplicate.

 Legislazioni, che %E2