Non c’è pace tra l’Ulivo

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Non c’è pace tra l’Ulivo

23 Aprile 2007

La “lunga marcia” verso il Partito Democratico, dopo i congressi dei DS e della Margherita, si avvicina a quel traguardo che uno storico come Pietro Scoppola ha sognato per una vita intera. Eppure del suo libro più importante, La repubblica dei partiti, di una quindicina d’anni fa, i “democratici” di queste settimane, per tanti versi votate a comporre, disporre, contrapporre le cose del passato, sembrano essersi dimenticati. C’era una volta la DC, con alle spalle un proprio retroterra primario, di tipo religioso, da interpretare politicamente; c’erano una volta i partiti “laici”, che dalla società nazionale nel suo insieme e dai suoi liberi fermenti miravano a ricevere i propri riferimenti ideali e culturali; e c’erano i partiti “marxisti” che erano – diceva Scoppola – “chiesa a se stessi”. Di qui per il “togliattiano” partito nuovo l’esigenza di una apertura assai larga delle iscrizioni. Fin dal 1945, quando in una circolare interna al partito si leggeva: “… Noi accettiamo nel nostro partito anche quei lavoratori che sono stati costretti a iscriversi al fascio per trovare lavoro e per esercitare una professione, a condizione però che non abbiano mai ricoperto cariche , né svolto attività politica a favore del fascismo…”.

Nei fatti gli iscritti passarono dai 401.960 del 1944 ai 1.770.896 nel 1945. Senza proprie strutture primarie sulle quali poggiarsi, senza la struttura capillare delle parrocchie e dell’associazionismo cattolico cui guardava la DC, il problema organizzativo avrebbe sempre avuto per il PCI e per il suo mondo dimensioni ed implicazioni importantissime. Verrebbe da dire che il problema organizzativo si configuri esso come il maggior problema politico. “La classe dirigente – scriveva Scoppola su La Repubblica dei partiti – di un partito di massa che raccoglie milioni di voti non si muove sul filo di un’astratta coerenza ideologica o culturale, ma è continuamente condizionata dalla evoluzione della sua base. E’ anche vero l’inverso: motivi propagandistici che servono ad aggregare la base e a tenere fedele al partito alla fine si ritorcono contro una classe dirigente e ne limitano la libertà di azione, diventano essi una gabbia dalla quale, una volta entrati, è difficile uscire”.

La considerazione valeva ieri per il leninismo (non solo organizzativo) della storia del Pci Ma vale pure ai nostri giorni per l’antiberlusconismo (non solo propagandistico) del processo di fondazione del Partito Democratico. Fino ad accreditare la sensazione di volersi aggregare su “organigrammi” più che su “idee” e ad alimentare un dibattito nel quale ciascuno sospetta ciascun altro di coltivare un sogno di potere, a prescindere da qualsiasi contenuto programmatico. Insomma tutti sono o si sentono “vertici” del Partito Democratico: quale sia la base, quali i corpi intermedi, quali le organizzazioni collaterali, nessuno lo sa e tutti rimproverano a tutti gli altri di non voler dire. Prevale la rissosità. Fra DS e Margherita; non meno che intra moenia degli uni e degli altri.

Non c’è pace tra gli ulivi: politologi da gazebo, tesserati fantasma, elenchi spariti. Di tutto di più. L’approdo al Partito sembra “introvabile”. Ognuno è sospettato di oligarchia. La trasversalità viene considerata minaccia all’identità. E poi ci sono i prodini: oggi che i prodiani sono al governo, al sottogoverno o in parlamento, prodini sono quei figli di ex esponenti della ex sinistra democristiana che della civil society nel nuovo partito vorrebbero la rappresentanza, ma la vorrebbero in esclusiva. Neanche la fatidica rievocazione riesce ad imporre una tregua. Anzi, ridesta la sensazione che aveva espresso con l’abituale perfidia a suo tempo Giovanni Sartori: primarie “anomale, acclamatorie”.

Malgrado la vasta partecipazione verificatasi, prima e più che il gran debutto in Italia di un nuovo istituto di democrazia, si è trattato di un espediente per consacrare la leadership di Prodi. Quindi, non una vera competizione per l’investitura. Affidare alle primarie la scelta del solo candidato alla guida dell’esecutivo e riservare allo stesso, di concerto coi segretari dei partiti, la selezione dei candidati alle Camere significa esaltare la legittimazione del leader e togliere autorevolezza ai componenti del legislativo, creando un inaccettabile squilibrio nella formazione dei poteri. Né le procedure del voto alle primarie possono definirsi solo in forza di autoregolamentazione e non anche per legge.

Qualcuno rilevò allora quanto poco giovasse a primarie vere e serie una disciplina del tutto privatistica. Da Barbera a Ceccanti, da Pasquino a Teodori. Ma chi mirava alle primarie “acclamatorie” non volle sentire ragioni. E il 16 ottobre del 2005 non ci fu alcuna certezza sulla composizione del corpo elettorale; nessuna garanzia sull’equilibrata distribuzione territoriale dei seggi elettorali; la presentazione delle candidature avvenne senza regole, senza programmi, senza responsabilità. Alle radici del malessere di oggi c’è a suo modo pure quel Regolamento di Autodisciplina approvato nel 2005 dai vertici dei partiti dell’Unione.

In tema di primarie, ma più in generale in tema di partiti politici, l’Italia deve passare “du non droit au droit”. L’immagine risale a un famoso articolo di Guy Carcassonne in un molto citato fascicolo della rivista Pouvoirs di una decina d’anni fa. La stagione dei congressi e delle discussioni in tema di riforma elettorale lo conferma: più che del profilarsi del Partito Democratico, è stata stagione di gargarismi contro la “partitocrazia”, ovviamente quella degli altri, mai la propria.