Non c’è più la Fiat di una volta a dettare le stagioni del potere

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Non c’è più la Fiat di una volta a dettare le stagioni del potere

12 Gennaio 2009

Per capire dove e come soffia il vento del Nord, è stato a lungo fondamentale, quasi esaustivo in certi periodi, analizzare con attenzione quel potere essenziale nella vita dell’Italia del Novecento, che è stata la Fiat. Industria elemento centrale della nostra economia, quella che dava il tono a tutto lo sviluppo, e insieme guida degli imprenditori italiani sin dalla fine della Prima guerra mondiale. Luogo anche dell’avanguardia della classe operaia, incubatrice di quel gruppo dell’Ordine nuovo che fu la matrice di un partito comunista che non mancherà di segnare la nostra storia. Torino svolge un ruolo centrale nella storia della nazione, di fatto ne è, insieme a Roma, il centro nevralgico. Nel Secondo dopoguerra alla dinastia dei Savoia, finita nella vergogna dopo fascismo e 8 settembre, subentra il mito degli Agnelli come quello della nuova dinastia “di riferimento”, non solo espressione di un potere ma anche di uno stile e un’ideologia.

C’è chi non dà un giudizio esaltante di come è stata guidata la Fiat, soprattutto dopo la scomparsa di Vittorio Valletta e nonostante le grandi capacità di Cesare Romiti. Il suo sistema di relazioni industriali non è stato all’altezza delle esperienze più moderne: quelle sorte di jacqueries che sono le lotte operaie torinesi negli anni Settanta trovano in quel sistema di relazioni la loro radice. Pur dotata di meravigliosi centri di ricerca e di una sapienza meccanica secolare, la Fiat non è un modello neanche di organizzazione manageriale: anche perché la proprietà ha espresso spesso nella gestione una concezione quasi da piantagione cotoniera, luogo da cui estrarre dei redditi, più che da industria moderna, che produce profitti.

In realtà molti problemi della nostra più grande compagnia produttrice di automobili sono stati risolti più per influenza politica che per meriti aziendali. Secondo una logica per cui ciò che era bene per la Fiat era bene per il Paese. Massima che peraltro conteneva anche una parte di verità. Da qui l’operazione di cessione dell’Alfa Romeo, le politiche di incentivi industriali, l’apertura di immensi pascoli economico-finanziari all’impero degli Agnelli.

L’ultima grande battaglia su questa linea è stata condotta tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo, quando alla crisi devastante della grande impresa torinese è stato sacrificato quasi tutto: dal management di Mediobanca alla guida riformista di Confindustria al sostegno al governo Prodi del 2006 che aveva come primo referente il gruppo torinese (d’intesa con la Cgil). Un’enorme influenza che però pare essere arrivata al suo limite. In parte per ragioni economiche: la produzione di automobili difficilmente sarà l’elemento trainante di un’economia sviluppata. Piuttosto con una politica di alleanze sopravvivrà se riuscirà a introdursi nei mercati emergenti. Il sistema Torino ha, poi, finito la sua egemonia storica: da qui le proposte di dialogo dei suoi magistrati, da Marcello Maddalena all’ex Luciano Violante, che vogliono discutere un nuovo sistema giudiziario, anche in vista di processi (da quello sullo swap Ifi-Ifil-Exor a quello sull’eredità degli Agnelli) che avranno qualche difficoltà a essere gestiti, in un clima di polemica tra politica e togati, aderendo perfettamente agli antichi riti pacificatori prevalenti nella città.

Anche la compiuta svolta federalista di Sergio Chiamparino, senza dubbio il politico torinese più sveglio, rappresenta la fine di una certa politica un po’ cavourriana dei torinesi, dei liberali da Luigi Einaudi a Valerio Zanone, dei dc come Giuseppe Pella, e  per quel che riguarda il mondo Pci ed ex Pci dallo stesso Palmiro Togliatti a minori come Ugo Pecchioli fino a minimi come Piero Fassino. L’emergere sulla Stampa di una vivace intelligenza critica come quella di Luca Ricolfi, senza dubbio merito pure della sveglia direzione di Giulio Anselmi, è anche segno della fine di una prevalente egemonia azionistica, secondo la quale i principi dovevano sempre prevalere sulla realtà.

Naturalmente molto di tutto questo movimento è ancora condizionato dalla Fiat, che vede ancora in azione la solita area conservatrice, da Luca Cordero di Montezemolo al responsabile della relazioni industriali Paolo Rebaudengo, fino al povero Mauirizio Berretta già direttore di Confindustria che è stato mandato allo sbaraglio (per aiuti all’auto sporchi, in contanti e subito) per difendere gli interessi del Lingotto contro il resto delle imprese. E’ una linea quella “conservatrice” che punta ancora sulle sponde politiche, sul consociativismo con la Cgil (sorreggendo il potere di un altro sperduto come Guglielmo Epifani), che cerca di farsi spazio alla “vecchia maniera”. Così a occhio, però quelli che segneranno i nuovi orizzonti sono i Sergio Marchionne e da un altro verso gli Angelo Benessia, emergente anche nel mondo delle banche, scommettendo su un’impresa ma pure su una società e una finanza più aperte e moderne.