Non è accettabile che un defeliciano latri contro il ‘fascista’ Giampaolo Pansa
31 Gennaio 2012
Sull’ultimo numero della ‘Rivista di Politica’ (04/2011), un periodico culturale diretto con grande competenza da Alessandro Campi, lo storico dell’Università di Camerino, Mauro Canali, pubblica un lungo saggio "Il revisionismo storico e i suoi critici". Canali è noto come lo spregiudicato frequentatore di archivi che, senza riguardo per nessuno, quale dev’essere il cultore della Scienza, ha portato alla luce il lato oscuro della vita di Ignazio Silone, la sua attività di spionaggio al servizio della polizia fascista. I documenti da lui pubblicati — se autentici, cosa di cui non pochi studiosi sono portati a dubitare e con argomentazioni non poco convincenti — parlano chiaro anche se la realtà, come sempre — purché di realtà si tratti — non è fatta solo di documenti ma, altresì, di dimensioni dell’umano destinate a rimanere fatalmente in ombra. Specie quando si tratta di cospirazioni, di lotte clandestine, di mascheramenti obbligati che comportano ricatti, cedimenti psicologici e talora un cupio dissolvi che sovente nasce da pulsioni autopunitive. D’altra parte, uno storico è uno storico e non si chiedeva certo a Canali di riscrivere "I demoni" trasponendo la vicenda dalla Russia degli zar all’Italia di Mussolini. Ho ricordato non a caso Fjodor Dostoevskij giacché un grande amico ed estimatore di Ignazio Silone, Giuseppe Faravelli, l’indimenticabile direttore di ‘Critica Sociale’ (nel comitato direttivo della rivista il mio nome figurava accanto a quello dell’autore di Fontamara, non per i miei meriti ma per l’intensa attività di collaborazione al periodico fondato da Filippo Turati e per l’affetto che nutrivo per gli epigoni della tradizione socialriformista milanese) un giorno diede un giudizio su di lui che allora mi parve di colore oscuro: «Per capirlo, ci vorrebbe un Dostoevskij!».
Comunque lasciamo perdere gli antefatti, le guerre civili e "Le spie del regime" (come s’intitola il grosso tomo pubblicato dal Nostro nel 2004 per i tipi e ‘Il Mulino’) e torniamo al saggio in questione: un attacco ai critici della storiografia defeliciana e, insieme, un’apologia appassionata di Emilio Gentile che grandeggia, in queste pagine, come il Renzo De Felice di questi anni, — anzi ancor meglio come la sintesi riuscitissima di De Felice e di George Mosse — il nuovo ‘termine fisso d’eterno consiglio’ per quel revisionismo che, come i diritti di Dworkin, dovrebbe essere ‘preso sul serio’. A leggerlo con attenzione, però, si è costretti a concludere che, come ‘topo d’archivio’, Canali sicuramente darebbe dei punti a un Mickey Mouse deciso a cambiare mestiere e a passare dalla caccia alla banda Bassotti alla caccia agli storici superficiali e fegatosi ma, come metodologo della storia e come storico delle idee, è meglio, forse, che lasci perdere…
Una delle tesi che sostiene in polemica col faziosissimo Angelo D’Orsi, infatti, è che «le logore e ormai sconfitte argomentazioni contro De Felice» hanno preso «lo spunto da alcuni discutibilissimi pamphlet di Giampaolo Pansa, una mistura sgradevole di giornalismo scandalistico, ispirati a un sfrontata e anti-storica rivalutazione delle ragioni del fascismo».
A differenza della sua vittima sacrificale, Ignazio Silone, uno scrittore che onora le patrie lettere (Leone Trotskij poneva Fontamara tra i capolavori letterari del Novecento), Mauro Canali, tuttavia, non mostra una grande dimestichezza con la lingua italiana se può chiamare pamphlet i volumoni di Giampaolo Pansa. Pamphlet si traduce, nel nostro idioma gentile, con ‘libello’ e ‘libello, nel ‘Grande Dizionario della Lingua Italiana’ di Salvatore Battaglia (Vol. IX, Utet 1975) è un «Volume di piccola mole, libretto—Anche lavoro letterario o scientifico di scarsa consistenza; opera breve, operetta».p.1. In una delle sue accezioni più rilevanti, gli autori del ‘Dizionario’ riportano pure: «Scritto, volumetto, per lo più breve e occasionale, talvolta anche anonimo, composto con intenzioni violentemente satiriche o polemiche, tali da sconfinare nella diffamazione, nell’ingiuria, nello scandalistico (e ,in passato, il termine era anche usato nelle espressioni libello famoso, infamatorio etc.)» pag.2.
Ebbene, a voler restare nello spirito e nella lettera delle definizioni, è Canali ad aver scritto un pamphlet in forma di articolo giacché le sue parole chiaramente sconfinano «nella diffamazione, nell’ingiuria, nello scandalistico». Non altro è il senso delle accuse rivolte allo ‘sfrontato’ Pansa reo di voler rivalutare le ‘ragioni del fascismo’.
Qui la polemica tocca davvero livelli indecenti e l’autentica faziosità ideologica — non giustificata, neppure, da una militanza estremista vissuta con innegabile passione politica, come nel caso di Angelo D’Orsi — mal si distingue dal turpiloquio dei ‘centri sociali. In un paese appena appena civile, non dovrebbe essere consentito a nessuno di attribuire ai propri avversari intenzioni losche e progetti eversivi dell’etica pubblica vigente. Canali aveva tutto il diritto di pensare che un certo modo di fare storia (che a me sembra corretto a lui no) «porta acqua al mulino dei fascisti». Lettore per anni del ‘Secolo d’Italia’ nel periodo in cui Giorgio Almirante reggeva le sorti del MSI, mi capitava spesso di leggere articoli apologetici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile: il loro approccio alla storia del ventennio, costantemente in polemica con la ‘vulgata antifascista’, significava, per i missini, un inaspettato ‘riconoscimento di dignità’, una ventata di aria nuova nelle stanze di un’accademia in cui ‘fascista’ e ‘malfattore’ facevano tutt’uno. Che De Felice fosse poi un autentico liberale —sdoganatore, tra l’altro, della categoria ‘totalitarismo’, che, per gli intellettuali del tempo, era uno slogan da guerra fredda— passava in secondo piano: a contare era il fatto che, per fare un esempio, un giovane ricercatore come Giordano B. Guerri potesse dedicare un libro al padre che era un fascista ma era lo stesso un brav’uomo.
La storia si ripete — come sempre, purtroppo, accade in Italia — e anche questa volta i grossi libri di Pansa sono stati accusati di voler riabilitare moralmente e politicamente il fascismo (come dichiarò del revisionismo, in un’intervista al ‘Corriere della Sera’, il teorico del ‘Republicanism’ — non faccio il nome perché il nostro republicanist ha la denuncia penale facile e già anni fa ci rimisi una grossa cifra in un processo per diffamazione che mi aveva intentato). Oggi, però, il passaggio dal ‘giudizio di fatto’ — «certi libri piacciono alla destra ‘fascista’» — al ‘giudizio di valore’ — «piacciono alla destra ‘fascista’ perché si propongono di riabilitare il fascismo» —, dopo tante ubriacature ideologiche, ha un sapore stantio ed emana un insopportabile fetore ideologico.
Qui non è in questione quel che Pansa ha oggettivamente scritto (e, ripeto, che certi libri possano piacere a Storace o alla Santanché è comprensibile) ma la sua soggettività etico-politica: un errore scientifico, in questo ‘stile di pensiero’, diventa una perversione morale che l’imputato non potrebbe in alcun modo negare e, quand’anche lo facesse, dichiarando con fermezza di essere ‘antifascista’, si sentirebbe rispondere col topico «menti sapendo di mentire!». Insomma, roba da Stalin, da Gestapo e da Ghepeù.
Ho parlato di ‘errori scientifici’per quanto riguarda la produzione storiografica di Pansa: non è il tema del mio intervento ma non posso esimermi dal chiedere ai critici furiosi del Sangue dei vinti: «nei suoi libri lo storico-giornalista presenta montagne di ‘fatti’, di testimonianze, di cronache di giornali dell’epoca, di resoconti ufficiali e semiufficiali di vicenda tragiche che prima del 1945 e negli anni immediatamente successivi sconvolsero l’esistenza di molti italiani. Ebbene quella documentazione è credibile? Ci sono episodi inventati di sana pianta o almeno in parte? Ci sono ricostruzioni di drammi personali e collettivi che non corrispondono al modo in cui, per dirla col grande Leopold Ranke, ’sono andate le cose’?» Non mi è mai capitato, a dir la verità, di leggere contestazioni puntuali e scientifiche delle migliaia di pagine dedicate da Pansa alla guerra civile. L’unica accusa, ossessiva e martellante, che gli viene sbattuta in faccia riguarda le sue ‘intenzioni’, il suo (presunto) gusto nichilistico di abbattere le erme dei fondatori della Repubblica democratica e antifascista.
Mauro Canali è un docente universitario, anche Pansa avrebbe potuto esserlo: sarebbero bastati i suoi primi lavori sulla Resistenza — cito per tutti "L’esercito di Salò nei rapporti riservati della Guardia nazionale repubblicana, 1943-44", Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, 1969 — per consentirgli l’accesso al cursus honorum universitario, meritato molto più di altri (e non faccio nomi) che, nelle Università grandi e piccole, disonorano cattedre occupate un tempo dai Volpe, dagli Omodeo, dai Salvemini, dai De Felice etc. Certo, rispetto a quei suoi primi lavori sulla guerra civile, la ‘visuale’ di Pansa è cambiata, la sensibilità alle ragioni dei vinti, indubbiamente, è cresciuta ma lo scrupolo filologico, l’onestà intellettuale, la ripugnanza all’alterazione degli eventi sono rimasti immutati. Averlo messo alla gogna, come ha fatto Canali, invece, getta invece più di un’ombra sulla weberiana ‘Wertfreiheit’ (l’imparzialità del ricercatore non condizionato dalle sue opzioni di valore) e sul rigore professionale con cui lo Javert di Ignazio Silone ha messo mano agli archivi del Ministero degli Interni.
PS. Del giudizio di Canali Giampaolo Pansa, classe 1935, piemontese doc di Casale Monferrato, se ne strafrega altamente. Siamo noi ,‘quattro gatti liberali’, a irritarci profondamente, constatando, ancora una volta, la voglia di presentarsi come cani da guardia, rabbiosi custodi dell’arca santa dell’antifascismo, che alberga perfino in quanti frequentarono le lezioni di Renzo De Felice e ne furono discepoli!