Non è con un governo tecnico che si risolleveranno le sorti dell’Italia

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Non è con un governo tecnico che si risolleveranno le sorti dell’Italia

08 Agosto 2011

In un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera il 1° agosto, Angelo Panebianco ha criticato efficacemente il mito del governo dei “tecnici” o “competenti”, espressione tipica dei “sentimenti anti-politici delle élite”. In questa fase, ha spiegato Panebianco, i fautori del governo dei “tecnici” sono di due tipi: chi cerca ogni pretesto per sbarazzarsi di Berlusconi e chi, sinceramente preoccupato per le sorti del paese, pensa che un’efficace soluzione di emergenza sia affidarsi a personalità indipendenti e libere da condizionamenti politici. Trattasi di un’illusione – ha sostenuto Panebianco – perché, a meno di non sospendere la democrazia, senza un accordo parlamentare fra le forze politiche nessuna decisione può essere presa.

In un editoriale pubblicato sul Corriere il giorno seguente, Francesco Giavazzi ha fatto una proposta apparentemente coerente col ragionamento precedente. Dopo aver molto lodato Berlusconi e avergli riconosciuto di essere l’unica personalità in grado di “prendere in mano il timone della politica economica” e di salvare “questo sfortunato paese”, gli ha proposto di accantonare la politica dei propri ministri economici per sviluppare la crescita. Sembrava una proposta politica, poiché si affermava che l’intuizione politica è più importante delle scelte tecniche. Ma di queste, osservava Giavazzi, Berlusconi avrà certamente bisogno, e allora la cosa migliore è chiedere alla Banca d’Italia di “mettere uno staff al suo servizio”. Qui i conti non tornano perché la parola “crescita” non esaurisce la scelta politica mentre al resto pensano i tecnici.

Le ricette per la crescita compongono un ampio ventaglio che va dalla patrimoniale alle liberalizzazioni, alle riduzioni fiscali. Non si può sostenere che questa materia sia puramente tecnica: è anzi la parte più politica che possa darsi. D’altra parte, Giavazzi non imputava ai ministri economici del governo Berlusconi meri errori tecnici, ma errori politici. Sarebbe quindi bastato chiedere a Berlusconi di cambiare politica economica, eventualmente cambiando ministri. Invece si chiedeva qualcosa di inedito, e cioè che Berlusconi si facesse carico di una linea politica generale di sviluppo commissariando i ministri economici con uno staff tecnico fornito dalla Banca d’Italia. Non ci vuol molto per vedere trattarsi dell’ultima versione del governo dei tecnici: un capo del governo di cui non ci si riesce a liberare e che si tollera purché depotenziato al livello di garante generico, mentre il governo effettivo va in mano ai competenti tecnici.

In un editoriale del 2 agosto (“No, l’inciucio no”), il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti paventava il ritorno ai vecchi riti della concertazione, alla formula della pace sociale barattata con la libertà d’impresa, fonte di tutti i mali italiani. E un editoriale de Il Foglio metteva in guardia contro i rischi della convocazione delle parti sociali, ammonendo che “concertare non fa crescere”.

Ma, si dirà, cosa c’entrano il governo dei tecnici, la tecnocrazia, e la concertazione? C’entrano, eccome. Se il consociativismo è un vecchio vizio italiano, i governi tecnici non l’hanno soltanto praticato, ma l’hanno istituzionalizzato sotto forma di concertazione. Se una critica va fatta al centro-destra è di non essersi liberato di questa pratica e di non aver restaurato il primato del parlamento continuando a subire la pessima abitudine per cui nessuna legge può essere presentata alle Camere se non abbia avuto preventivamente un sufficiente avvallo dalle parti sociali. Perciò consociativismo e tecnocrazia vanno a braccetto e se il governo non ce la fa ad andare avanti non è buona idea cercare di rivitalizzarlo con una trasfusione di questo mix che già troppo lo avvelena.

Un esempio emblematico è dato dall’interesse spasmodico delle parti sociali (sindacati e industriali) per l’istruzione. Se la riforma universitaria aveva un difetto era quello di voler fare dell’istituzione una sorta di ufficio studi confindustriale e, per fortuna, questa propensione è stata abbastanza corretta. I nostri istituti tecnici e professionali sono in grave crisi, anche per riforme sgangherate, e invece di rimediare a queste “riforme”, si vocifera addirittura di “descolarizzare” questi istituti facendone una sorta di apprendistato per le imprese. Anche l’ossessione valutativa dell’istruzione mediante test viene sostenuta dall’interesse spasmodico a vedere la scuola come mero strumento di formazione di forza-lavoro. Entrambe queste visioni sono a dir poco riduttive per un paese che pretenda a un elevato livello tecnoscientifico e culturale. Fin qui siamo alla tecnocrazia. Poi vi sono gli interessi dell’altra parte sociale, il sindacato, in materia di assunzioni e di soddisfazione delle esigenze del precariato. Il governo ha già assunto quasi 70mila precari della scuola e si vocifera che sia pronto a un’altra poderosa immissione in ruolo. Pare che per le molte decine di migliaia di giovani laureati non vi sia spazio per chissà quanti anni. Ma le parti sociali sono soddisfatte, nel matrimonio tra concertazione e tecnocrazia, e tanto basta.

Non sembra proprio opportuno e sensato esaltare queste tendenze con una trasformazione del governo in governo dei tecnici mascherato da un cappello di nome Berlusconi. Meglio guardare in faccia la realtà: se la politica non riuscirà ad assumersi le sue responsabilità e a uscire definitivamente dal connubio tecnocrazia-consociativismo, andremo al disastro passando da un tavolo all’altro.