Non è un “dream team”

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Non è un “dream team”

Non è un “dream team”

14 Febbraio 2021

La nostra partita l’avevamo già giocata e vinta allora, quando per primi e in solitudine avevamo sostenuto che, in presenza di una crisi di governo quantomeno eccentrica per i tempi nei quali era stata proposta, l’unica soluzione all’altezza sarebbe stata un governo di salvezza nazionale in grado di accelerare l’uscita dall’emergenza pandemica, di cogliere l’occasione storica del Recovery e d’inaugurare un terzo tempo della Repubblica con un tasso di legittimazione e di reciproco riconoscimento superiore rispetto a quello che ha caratterizzato le prime due ere politiche (o forse geologiche) che l’Italia repubblicana si è lasciata alle spalle.

Il fallimento del tentato “Conte 3” (fallimento che non ci sarebbe stato senza il nostro atteggiamento rigoroso), la chiamata di Draghi, l’appello a tutte le forze politica nessuna esclusa, ancor più che una nostra vittoria è stata la vittoria della realtà e del buon senso sul calcolo politico.

Ottenuto questo risultato noi, piccolo drappello di “resistenti” consapevoli d’essere per il momento poco più di una “minoranza creativa”, dalla composizione dell’esecutivo non avevamo nulla da chiedere e nulla da sperare. Il nostro compito resta un altro: edificare, in un tempo non lungo, una casa politica per i liberali, i conservatori, i cristiani che, in tanti, hanno oggi compreso di non avere più nemmeno una corte alla quale riferirsi.

Ciò non ci esime da un giudizio sul governo che è nato e al quale formuliamo gli auguri più sentiti: un giudizio sulle speranze che esso potrebbe suscitare, sui pericoli nei quali potrebbe incorrere. Diciamo la verità: non è il dream team che in tanti avevano auspicato. E il problema non sono neppure i nomi dei Ministri (complessivamente migliori, in ogni caso, di quelli che componevano il precedente esecutivo) quanto, piuttosto, la logica che a vari livelli ne ha determinato la scelta. Una logica se non cinica quanto meno asfittica, che occhieggia più al passato che non a quel futuro cui questa operazione avrebbe dovuto, invece, dischiudere l’orizzonte.

Il nuovo esecutivo sembra essere la somma tre differenti segmenti. Draghi e i suoi tecnici (Franco, Colao, Cingolani, Giovannini) prendono sotto la loro tutela il Recovery. C’è poi il blocco di potere del “Conte 2”, che coincide con la coalizione M5S-Pd-Leu, che ha goduto un po’ troppo di una rete di tutela. E infine la componente del centrodestra nella quale sono stati premiati dagli “europeisti”, se non contro, quantomeno senza il coinvolgimento dei loro partiti di appartenenza.

In questo modo, si è prodotta una doppia frattura: tanto all’interno dei singoli partiti di centrodestra (sia in Forza Italia che nella Lega), quanto tra quei partiti che voteranno la fiducia e Fratelli d’Italia che, invece, aveva comunicato sin dall’inizio la sua indisponibilità.

La composizione del governo, insomma, ha a che fare più con la continuità che con il cambiamento e, per questo, non può non lasciare dubbioso chi ritiene invece che la Repubblica del dopo-Covid debba inaugurare un nuovo tempo politico in discontinuità col passato più prossimo.

Non credo che tutto ciò sia farina del sacco di Draghi. Il professore ha dimostrato di essere un empirista e, libero da quei condizionamenti che d’altro canto chi decide di scendere nell’arena della politica deve essere disposto ad accettare, avrebbe affrontato il nodo del rapporto con l’Europa non come un diaframma ideologico ma per come la realtà ce lo presenta: un’occasione unica. Per la prima volta, infatti, cittadini di alcuni Paesi dell’Unione hanno accettato di pagare le tasse per cittadini di altra nazionalità; se l’esperimento dovesse andare bene, e quanti si saranno tassati ne avranno un beneficio, l’Europa si avvierà inevitabilmente verso una fase di maggiore integrazione; se dovesse andar male, la direzione sarà opposta. Dal dopoguerra in poi, d’altra parte, l’Europa è stata una necessità pragmatica assai più che un’ideologia di sostituzione e i passi più importanti li ha compiuti ogni qual volta essa è divenuta una necessità popolare.

Sarebbe stato bene mantenere quest’impostazione empirica e a-ideologica chiarendo, ovviamente, che dal rapporto con l’Europa il governo che rappresenta l’Italia oggi non può prescindere, per ragioni relative innanzitutto all’interesse della nazione. Il Presidente Mattarella, d’altro canto, nei sei minuti fatidici che hanno cambiato la storia di questa crisi, aveva affermato “avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”.

Con il governo Draghi, insomma, non sarebbe dovuta nascere una nuova coalizione ma un accordo “one-to-one” fra ogni singola forza politica e il Presidente per dipanare alcuni nodi epocali, prima di tornare ognuno a vestire la maglia della propria squadra. Guardando alla composizione dell’esecutivo e al modo nel quale i tre segmenti sono stati assembrati, si scorge invece un rischio: che l’europeismo – sacrosanto se dettato dal pragmatismo e pragmaticamente interpretato – venga ideologicamente utilizzato per far entrare dalla finestra quella formula politica che le parole del Presidente Mattarella sembravano aver fatto uscire dalla porta. E che, col trascorrere del tempo, il blocco di potere ampiamente tutelato prenda il sopravvento e il governo si trasformi di fatto in un governo di centrosinistra con alcuni tecnici d’area e qualche indipendente di centrodestra senza più rifornimenti alle spalle da parte dei partiti di provenienza.

Sia chiaro: è solo un rischio. E il Presidente Draghi – al quale sarebbe ingiusto attribuire la responsabilità politica di averlo determinato, e la cui azione di governo può anzi restare vittima di questa pericolosa dinamica – lo può sventare tenendo ben salda la connotazione emergenziale del suo esecutivo, consacrandolo ad accelerare la fine della pandemia, evitando scelte depressive sull’umore delle persone e sull’economia che non rispondano a un criterio di assoluta necessità; mettendo l’Italia sui binari della ripresa; riportando la competenza al centro della politica, raccordandosi col Parlamento per poche ma essenziali riforme dello Stato.

Noi che nulla abbiamo chiesto saremo critici attenti, pronti a denunziare finanche nelle scelte di ogni giorno le deviazioni dalla via maestra. Ma pronti pure a dare a Draghi tutto il nostro sostegno se, nonostante il peso delle scelte iniziali, saprà tenere la barra dritta.