Non è vero che la Natura è matrigna e l’evoluzione solo frutto del caso
03 Maggio 2009
Hanno avuto grande eco sui giornali le dichiarazioni fatte ad un recente convegno romano da vari ecclesiastici sulla conciliabilità tra fede in un Creatore e mutazione della vita sulla terra, quella che viene detta “evoluzione”: il cardinale William Levada (successore di Ratzinger alla guida dell’ ex Sant’ Uffizio) spiega che c’è uno «spazio sufficientemente ampio» per credere nella base scientifica dell’evoluzione e al tempo stesso per la fede in un Dio creatore. Ci stupisce la reazione di sorpresa a queste parole, perché il problema per la fede non è mai la scienza, ma le conclusioni errate che dai dati scientifici qualcuno vuole trarre; anzi la scienza è sempre apertura al nuovo e all’imprevisto, confidando nel genio dell’uomo e nella leggibilità (e non nella casualità) della natura.
Vediamo un esempio, proprio nel campo dell’evoluzionismo, in cui la ricerca rompe certi schemi (e per questo non ne parla nessuno). Nell’anno delle celebrazioni darwiniane, esplode qualcosa di nuovo, si chiama “epigenetica”. E’ lo stesso anno in cui purtroppo ci si affanna ancora a rincorrere degli schemi sorpassati: da una parte c’è chi non ammette che la vita sulla terra possa aver subito trasformazioni nel millenni (certi gruppi creazionisti del Nuovo Mondo); dall’altra chi vuole dimostrare una stretta figliolanza tra le scimmie e l’uomo (i partigiani dell’umanità degli scimpanzé). In mezzo a questi campi si trova la ricerca scientifica che purtroppo silenziosamente avanza e lascia indietro i due contendenti proprio sbandierando la nuova parola nel mondo dello studio della vita che si chiama “epigenetica”; non ne parla nessuno, ma ormai è da anni materia di insegnamento. Sono stati scritti volumi e riviste sono dedicate espressamente ad essa.
Di cosa si tratta? Semplicemente del fatto che, come spiega la rivista Science Daily del 13 Aprile, “il DNA non è tutto”. Cosa vuol dire? Che il messaggio scritto nel DNA viene modulato dall’ambiente circostante e, altra novità, queste modulazioni sono ereditabili. La rivista americana fa l’esempio del moscerino chiamato Drosophila Melanogaster: se la temperatura dell’embrione di questo moscerino viene fatta passare per un breve periodo da 25 gradi a 37 gradi, il moscerino nascerà con gli occhi rossi invece che bianchi; il che non sarebbe niente se non fosse che… anche i suoi figli avranno, almeno in parte, gli occhi rossi. L’aumento di temperatura non ha alterato il DNA, ma ne ha alterato l’espressione, e questo si propaga di generazione in generazione.
Alcuni studiosi americani hanno mostrato che queste alterazioni durano almeno quattro generazioni. Michael Skinner, direttore del Center for Reproductive Biology alla Washington State University descrisse su Science del 2005 che esponendo topi ad un particolare insetticida, si provocava una diminuzione degli spermatozoi e contemporaneamente veniva bloccata l’espressione di parti del DNA; ma soprattutto mostrò che l’effetto di questo contatto con la sostanza tossica avvenuta in una generazione, durava per almeno quattro generazioni successive. Dunque il vecchio pensiero che l’ambiente agisce solo come selezionatore delle mutazioni casuali è ormai sorpassato.
Anche la rivista del Massachussets Institute of Technology ("Technology Review", febbraio 2009) riporta questi dati spiegando la possibilità che l’ambiente influenzi l’espressione del DNA. Susannah Vermuza sulla rivista Genome del 2003 spiega che «la ricerca mostra con evidenza che in natura avviene l’eredità di caratteristiche acquisite» e Eva Jablonka nsieme a Marion J. Lamb nel volume Evolution in Four Dimentions (MIT Press, 2005) spiegano che questa ereditarietà dei caratteri acquisiti avviene per via di azioni epigenetiche, cioè non per mutazioni del DNA, ma per un silenziamento di alcuni geni indotto dall’ambiente.
Questo spiega anche perché topo e scimpanzé, pur avendo DNA molto simili, sono così diversi: salvo piccoli tratti di DNA, gli stessi geni sono presenti in entrambi gli animali, ma le cellule del topo ne usano alcuni, quelle dello scimpanzé altri. Dunque chi dice che «l’uomo è strettamente imparentato alla scimmia perché il DNA è molto simile» trova facile risposta nel fatto che, seppur sono simili i due DNA (ma sono simili anche a quello del moscerino) certamente non è simile ciò che regola il DNA stesso (questo per non parlar certo poi delle abissali differenze morali e spirituali che non sono riconducibili a DNA et similia).
Perché è importante che l’ambiente influisce sul DNA e che questa azione è ereditabile? Perché a mio avviso (e non solo mio) mostra che ciò che regola il cambiamento della vita sulla terra non è il caso, ma la collaborazione. L’ambiente non agisce solo per “selezionare il migliore” (che sarebbe apparso per puro caso), ma l’ambiente sembra indurre un miglioramento, o comunque un cambiamento. Il noto scienziato Enzo Tiezzi, sulle orme del premio Nobel Ilya Prigogine, nel suo Steps Towards an Evolutionary Physics (WIT Press 2006), scrive che «l’avventura dell’evoluzione biologica è segnata da eventi-possibilità e eventi-scelta. È un’avventura stocastica, dal greco stokazomai, che significa, "mirare con la freccia al centro del bersaglio"». Infatti le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell’arciere. E continua «il sistema combina la possibilità con la selezione. (…) Gli ecosistemi si evolvono stocasticamente per co-evoluzione e auto-organizzazione», in cui l’ambiente ha la funzione di catalizzatore e organizzatore.
Insomma, proprio nel bicentenario darwiniano la ricerca scientifica svela un mistero: non è vero che nel mondo tutto è lotta e sopraffazione tra esseri mutati casualmente (come a qualcuno farebbe piacere pensare), ma può essere determinante (e lo è) la collaborazione armonica tra vita e ambiente. La realtà allora non è nemica e non è il cieco caso a dominare il mondo, come sostengono i seguaci nostrani di Shopenhauer e Democrito. Se siamo arrivati dove siamo, è per una collaborazione con una natura che non è nemica, in cui i vari passi sono come le frecce tirate dall’arciere: arrivano sparse e imperfette magari, ma tutte con un senso e un indirizzo: il centro del bersaglio. Ma cosa ci sia dietro l’arco, non sta alla scienza spiegarlo.