Non ne usciremo migliori ma neppure arresi
20 Dicembre 2020
La retorica, in questi lunghi mesi di convivenza con il Covid, ha giocato un ruolo importante. Ha assunto quasi i connotati di una sorta di esorcismo collettivo, ora per convincersi che “andrà tutto bene”, ora per dire che “ne usciremo migliori”.
Personalmente non so dire come ne usciremo, ma ad oggi non credo affatto che questo lungo stato di semi-sospensione ci abbia migliorato, né sembra di intravedere i segnali di una inversione di tendenza. Tutt’altro.
Non mi riferisco ovviamente al peggioramento drammatico delle condizioni economiche di larghissime fasce del mondo produttivo e dell’economia nazionale in generale: constatazione fin troppo scontata. E neppure all’incattivimento nei confronti dei propri simili che la paura e il distanziamento in molti casi hanno determinato nelle persone.
Mi riferisco a una dinamica più profonda e, se vogliamo, per questo più preoccupante. Il fatto è che la pandemia, con la sua imprevedibilità, con le fragilità che ha evidenziato e con gli sconquassi che ha prodotto, avrebbe potuto rappresentare l’occasione per fare i conti con una dimensione che l’uomo del nostro tempo sembra avere drammaticamente rimosso. E cioè con il senso del limite a fronte della presunzione di onnipotenza. Con la concezione della libertà e il suo nesso con la responsabilità. Con una certa idea delle relazioni sociali e interpersonali. Con la consapevolezza di una finitezza che se per chi crede si risolve nella dimensione della trascendenza, interpella in ogni caso l’istinto, il cuore e la razionalità di ciascun uomo.
In modo un po’ approssimativo, è proprio il nesso fra la crisi che stiamo attraversando e la necessità di un recupero di senso a ispirare la prognosi ottimistica – “ne usciremo migliori” – alla base di questo ragionamento. E il motivo per il quale, invece, ben che vada da questa emergenza usciremo tal quali a prima, e più probabilmente un po’ peggio, risiede nel fatto di non averla colta, questa occasione di ripensamento. Anzi.
Qualcosa di analogo accadde nel secolo scorso, in occasione di un’altra grande cesura, rappresentata dal tramonto delle ideologie. Si ritenne allora che in particolare la fine del comunismo, con la sua presunzione fatale di poter pianificare l’esistenza delle persone e delle società, potesse condurre a una riscoperta dell’essenza dell’uomo, a un recupero del sacro, a una ripresa della fede.
Fu questa, ad esempio, la grande scommessa di un Santo come Giovanni Paolo II che al crollo del moloch rosso diede un contributo decisivo, che in nome di una prospettiva di rinascita diede credito al sogno europeo, e che negli anni a venire si è trovato invece a fare i conti con un mondo sempre più secolarizzato. Altro che risveglio spirituale! Con un mondo nel quale quella stessa ideologia totalitaria sconfitta dalla storia, lungi dall’appassirsi, si è limitata a cambiare terreno di applicazione (dal campo socio-economico a quello antropologico) e modalità (dal partito-cattedrale al partito radicale di massa), ma è uscita dal suo stesso fallimento più forte che pria. Tant’è che vi siamo immersi dentro, spesso senza neanche rendercene conto.
Cosa c’entra tutto questo con il Covid? Lo ha spiegato bene Michel Houellebecq, ancora una volta l’interprete più lucido della crisi di senso dell’Occidente. Per lo scrittore francese, proprio come dopo la fine del comunismo, da questa crisi non ci sveglieremo in un mondo migliore: sarà lo stesso di prima, forse un po’ peggiore perché il “distanziamento” imposto della pandemia avrà accelerato quei processi di alienazione e di disgregazione sociale alla base di tanti mali del nostro tempo. Quella trasformazione dell’uomo in un’”isola”, presagio della fine corsa dell’umanità, che lo stesso Houellebecq aveva preconizzato in uno dei suoi romanzi, forse meno noto ma non meno profetico degli altri.
Lungi dal risvegliare il bisogno innato dell’altro da sé, la brutta crisi che stiamo vivendo ha agito da moltiplicatore del nichilismo occidentale. Con esiti solo apparentemente paradossali. Non è un caso, ad esempio, che fra i più rigorosi interpreti delle norme di sicurezza sanitaria vi siano coloro che in tempi ordinari fanno il tifo per l’eutanasia: non si tratta, purtroppo, di una conversione alla sacralità della vita umana, ma del tentativo di sottrarre la finitezza dell’uomo alle sue dinamiche imprevedibili per ricondurla sotto il giogo della pianificazione.
Insomma: come accadde sotto le macerie del Muro, le macerie di questa strana emergenza non ci consegneranno un Occidente più consapevole, tantomeno un risveglio spirituale. Il tentativo della stessa Chiesa di derubricare a mera sovrastruttura della quale si possa fare a meno, e non a una dolorosa rinuncia, le limitazioni all’esercizio del culto, ne sono un segnale assai eloquente.
Cosa fare, allora? Desistere, mai. Né – sia detto con simpatia – è il caso di cedere alle suggestioni di un isolamento contemplativo dal quale scrutare le rovine fumanti della società occidentale, magari con un misto di rammarico per il tramonto di una civiltà e di autocompiacimento per averlo previsto senza esserne complici. La strada è una sola: combattere la buona battaglia. Resistere nella trincea impopolare di quelle “minoranze creative” di ratzingeriana memoria che attraverso la creatività anelano a divenire maggioranze o, almeno, a conquistare l’egemonia. Di fronte all’avanzare dei nuovi totalitarismi e dei “nuovi diritti”, tenere alta la bandiera dell’uomo finché il sole tornerà a splendere. Perché la storia è sempre imprevedibile e pronta a smentire sia chi decanta sorti progressive, sia chi immagina sciagure infinite.