
Non riaprite quel balcone da cui il Duce dichiarò guerra al mondo

06 Febbraio 2011
di Carlo Zasio
Suscita forte dibattito la ventilata decisione di riaprire al pubblico il balcone di Palazzo Venezia che dalla Sala del Mappamondo si affaccia sull’omonima piazza di Roma. Da mesi spira un’aria di revisionismo – con non poche perplessità e irritazioni – sulla tacita consuetudine di tenere sbarrato l’accesso al luogo dal quale l’Italia, con il ferale annuncio di Benito Mussolini, dichiarò guerra il 10 giugno del 1940 a Francia e Gran Bretagna, le uniche due grandi democrazie dell’Europa dell’epoca. Un momento fatale nella storia del nostro Paese, a più di settant’anni ancora indelebilmente impresso nella memoria di molti se non di tutti gli italiani grazie al potente mezzo del cinegiornale che lo immortalò.
Dalla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio del 1943 quelle finestre rimasero serrate da un massiccio lucchetto, occultate da un pesante tendaggio e il balcone usato come area di deposito logistico per i lavori di allestimento di mostre temporanee – senza permettere ai tecnici di accedervi completamente – e ultimamente come appoggio per i motori di due condizionatori d’aria. Un’area dismessa, sporca e priva di agibilità, condannata all’oblio nel ricordo delle nefaste conseguenze di una guerra intrapresa per basso tatticismo politico, condotta con insipienza e persa con ignominia, abbandonando un esercito e un popolo al proprio destino sull’orlo di quella guerra civile che insanguinerà l’Italia ben oltre il 25 aprile del 1945.
La sconfitta – che solo rileggendo La pelle di Curzio Malaparte recentemente riedita da Adelphi possiamo comprendere nella sua devastante verità – ha segnato profondamente la storia del Paese con solchi che la pallida retorica repubblicana della guerra di Liberazione ha solo pudicamente occultato. Più che comprensibile allora la prudenza, che non può e non deve essere scambiata per eccesso di zelo, dei Soprintendenti alle belle arti che per settant’anni hanno gestito Palazzo Venezia.
Ora probabilmente i tempi sono maturi per restituire il balcone al percorso del museo, ma non certo nel nome della valorizzazione. Mercificare la memoria banalizzando la storia può, in questo caso, rivelarsi inopportuno. Troppi lutti, troppo dolore, troppa vergogna grondano da quel balcone. Forse, come ha risposto il direttore della Stampa Calabresi allo storico del diritto Christian Zendri nella pagina delle lettere dello scorso venerdì, la soluzione migliore è lasciarne aperte le tende, consentendo ai visitatori di godere della vista della piazza e alla luce del sole di irrompere nell’ambiente invero un po’ tetro del salone, e tener ben chiuse le finestre. Non si sa mai che uno spiffero d’aria non faccia buscare un malanno di troppo a qualche anziano che ha poca dimestichezza con la storia.