Non si impara molto guardando alle libertà con occhi marxisti
25 Agosto 2007
Il titolo del libro di David Harvey, A Brief History of Neoliberalism, è diventato in italiano Breve storia del neoliberismo (Il Saggiatore, Milano, 2007): il lettore è spinto a chiedersi le ragioni di questa trasformazione. Dal momento che la traduzione (di Pietro Meneghelli) è eccellente, non può trattarsi di una svista. Il testo di Harvey parla di tutte quelle politiche economiche che nel corso degli ultimi decenni hanno spostato l’asse dal pubblico al privato, minato il potere dei sindacati e smantellato pezzo dopo pezzo il sistema del welfare state. Da noi questo complesso di misure di deregolamentazione va sotto il nome di liberismo, e di neoliberismo quando si vuole sottolineare la ripresa attuale di una politica economica codificata e già sperimentata in passato. D’altra parte, con il termine liberal si è soliti indicare nel settore dei partiti politici e delle ideologie quella tendenza progressista, avanzata, inclusiva, che si contrappone alla tendenza conservatrice. Sotto i termini apparentementi univoci di liberalismo, neoliberalismo, liberale, liberismo, neoliberismo, si nasconde in effetti un intrico complesso di significati. Nel mondo anglosassone ciò che noi identifichiamo con liberismo non ha un termine specifico per definirsi, e si traduce piuttosto con l’espressione free market oppure con il termine neoliberalism, poco utilizzato invece da noi nella traduzione letterale neoliberalismo. Per contro, se dal sostantivo si passa all’aggettivo liberal, il significato si trasforma ancora e non coincide affatto con il termine liberalism: mentre questo indica la teoria e la pratica dei principi liberali classici, il primo indica atteggiamenti, ideali e programmi che in italiano sono coperti piuttosto dal termine progressista. Quando gli anglosassoni usano il termine neoliberalism vogliono indicare quindi la ripresa novecentesca del liberalismo nella versione che noi definiremmo neoliberista.
Ci sono alcune date chiave utili a periodizzare le politiche neoliberiste qui prese in esame: l’elezione nel 1979 di Margaret Thatcher a primo ministro in Gran Bretagna, l’elezione nel 1980 di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti. “Il neoliberismo – scrive Harvey – è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio. Il ruolo dello stato è quello di creare e preservare una struttura istituzionale idonea a queste pratiche. Lo stato deve garantire, per esempio, la qualità e l’integrità del denaro; deve predsporre le strutture e le funzioni militari, difensive, poliziesche e legali necessarie per garantire il diritto alla proprietà privata e assicurare, ove necessario con la forza, il corretto funzionamento dei mercati. Inoltre, laddove i mercati non esistono (in settori come l’amministrazione del territorio, le risorse idriche, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la sicurezza sociale o l’inquinamento ambientale), devono essere creati, se necessario tramite l’intervento dello stato. Al di là di questi compiti, lo stato non dovrebbe avventurarsi.” Dagli anni Settanta in poi questi principi sono stati tradotti in realtà un po’ in tutto il mondo, anche se con modi e risultati diversi, e sono diventati diffusi ed egemonici. L’autore in questo testo espone il corpus teorico di quei principi, ma soprattutto ricostruisce le varie forme della loro applicazione dal Cile alla Svezia, dagli Stati Uniti alla Cina: il suo scopo è quello di mostrare la massiccia distruzione di protezioni sociali e reti di solidarietà collettive che tale applicazione ha comportato, e i terribili effetti negativi che caratterizzano il nostro presente. Un mondo precario governato in modo antidemocratico da organizzazioni mondiali (WTO, FMI, G8) nel quale il lavoro è divenuto flessibile e ha perduto ogni potere, nel quale si preleva ai poveri (paesi e individui) per dare ai ricchi, è il risultato che è stato raggiunto. Harvey rintraccia le molte voci alternative a questo tipo di sviluppo in un’ottica che si richiama esplicitamente al marxismo e alla lotta di classe, e legge in questa fase storica il verificarsi dell’accumulazione primitiva del nuovo capitalismo. Proprio come il marxismo classico, vede sintomi di crollo del capitalismo e li individua soprattutto nella crisi attuale degli Stati Uniti.
Da questo libro non si impara molto, forse a causa di alcuni aspetti contrastanti che lo caratterizzano: il principale è la ricerca di una identità comune a politiche che – per ammissione stessa dell’autore – si differenziano molto l’una dall’altra a seconda dell’area geografica in cui vengono applicate. Una ulteriore spinta alla diversificazione di queste politiche deriva anche dalla storia che ha preceduto gli anni Settanta: in un caso l’eredità pesante del colonialismo e della decolonizzazione, in altri regimi autoritari, in altri ancora liberaldemocrazie assai sviluppate. E’ ovvio che da premesse così diverse non potessero derivare che conseguenze assai lontane fra loro. Ma è anche sul piano delle alternative possibili che Harvey mette insieme tendenze e movimenti che forse non hanno molto in comune: no-global di ogni forma e colore, zapatisti, movimenti operai tradizionali, ambientalisti di Greenpeace, seguaci di Hardt e Negri, adesione a forme varie di religiosità. Siamo certi che esista un denominatore comune per le loro rivendicazioni?
E’ proprio sul piano delle rivendicazioni che il libro di Harvey delude di più: si deve partire – a suo parere – da una critica morale al nuovo capitalismo per poi tradurre in cultura e infine in politica tale critica. Al nuovo capitalismo che privatizza e considera qualunque cosa come una merce possono essere opposti i diritti liberali, ma più utili sono nuovi diritti, diritti alternativi quali “il diritto a opportunità di vita, all’associazione politica e a una ‘governance’ buona, al controllo della produzione da parte dei produttori diretti, all’inviolabilità e integrità del corpo umano, alla libertà di criticare senza dover temere rappresaglie, a un ambiente di vita decente e salubre, al controllo collettivo delle risorse di proprietà comune, alla produzione di spazio, alla differenza, oltre che diritti inerenti al nostro status di esseri che appartengono a una specie.” E’ difficile porre questi diritti sotto il segno di una maggiore democrazia, come l’autore pretende: alcuni si collocano perfettamente nel solco del liberalismo, altri si richiamano all’autogestione operaia, altri ancora a una particolare versione dell’etica ambientale, e infine un piccolo numero di essi alle politiche di genere. Siamo certi che la richiesta di maggiore democrazia (che secondo Harvey li accomunerebbe) sarebbe intesa da questi movimenti allo stesso modo? Ci permettiamo di dubitarne.