Non si può parlare della nostra tradizione ignorando il cristianesimo

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Non si può parlare della nostra tradizione ignorando il cristianesimo

18 Settembre 2011

Pubblichiamo l’intervento di Gaetano Quagliariello, Vicepresidente vicario del PdL al Senato, che ha introdotto la tavola rotonda “I valori della tradizione nazionale” a cui hanno partecipato l’On. Maurizio Lupi, Vicepresidente della Camera dei Deputati, l’On. Eugenia Roccella, Sottosegretario alla Salute e il Sen. Alfredo Mantovano, Sottosegretario al Ministero dell’Interno, in occasione del convegno “Valori, visione e forma politica del popolo dei liberi e forti” organizzato dal PdL Veneto nei giorni 16, 17 e 18 settembre a Cortina d’Ampezzo.

Introdurre un dibattito sui “valori della tradizione nazionale” significa innanzitutto riflettere sul rapporto tra religione e politica, sul significato della laicità e sulla presenza dei principi cristiani nello spazio pubblico.

A meno di voler rinnegare le proprie origini e la propria identità, infatti, non ha senso parlare della nostra tradizione senza far riferimento al cristianesimo. Specularmente tuttavia – dopo l’esaurirsi dell’esperienza del partito unico dei cattolici, dopo l’avvento dei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, dopo che il nuovo secolo si è aperto con quell’11 settembre di cui proprio in questi giorni ricorre il decimo anniversario – non è più possibile in politica riconnettere i principi cristiani a una dimensione fideistica e non piuttosto a una dimensione ideale che possa valere per chi crede e per chi non crede.

Il nostro Paese, con il suo sistema politico, sta attraversando una fase di profondo rivolgimento, che si inscrive nel quadro di una crisi globale che sta costringendo l’Occidente a ripensare i propri paradigmi: a riconsiderare equilibri geopolitici, processi economici e stili di vita fino a qualche tempo fa ritenuti intangibili.

Anche se il nuovo secolo è iniziato da più di dieci anni, la travagliata transizione che ne ha accompagnato l’avvento non si è ancora conclusa. Circostanza che non può apparire strana se solo si considera quanto fossero radicate le ideologie del Novecento e, dunque, quanto profonda sia stata l’incertezza che il loro tramonto ha provocato. Da questa incertezza sono fioriti, tra l’altro, relativismo e nichilismo intesi come opzioni culturali e canoni di vita. Nel governo di questa fase di mutamento si colloca perciò anche la risposta che ad essi va data da quanti non accettano la “nuova egemonia”.

Proprio la nuova ricerca di senso, infatti, ha investito il cristianesimo di una responsabilità più grande, se vogliamo ancora più universale: quella di rivolgersi a un popolo che va oltre e al di là del popolo dei credenti. La responsabilità di parlare a chi ha fede, ma anche a quei non credenti che riconoscono nella storia millenaria del cristianesimo parte imprescindibile delle fondamenta culturali della nostra civiltà, e nei suoi principi il patrimonio genetico della società occidentale.

Di questo si rese conto con una straordinaria chiarezza intellettuale l’allora cardinale Ratzinger. Alla vigilia della sua ascesa al Soglio pontificio, il futuro papa Benedetto XVI rivolse un appello ai non credenti a vivere come se Dio esistesse. Quell’appello nasceva dalla consapevolezza delle dinamiche del nuovo secolo e del loro riflesso sulla società e sulla stessa civiltà occidentale. Ma anche dalla necessità, per chi ha fede, di non accettare che i principi del cristianesimo possano ridursi a una sorta di religione civile. Quell’appello, in sostanza, salvava la sostanza della fede e andava oltre, dirigendosi verso coloro che la fede non l’hanno incontrata.

A noi uomini impegnati in politica sul fronte del centro-destra quell’appello trasmette un messaggio: il valore erga omnes del cristianesimo nel mondo contemporaneo è qualcosa con cui non si può evitare di fare i conti. Anche per questo la costruzione di un partito che definisca la propria identità nel perimetro di quei principi non può essere tacciata come un’operazione di stampo clericale. Anche per questo non c’è rottura, ma piuttosto un’evoluzione, tra il percorso intrapreso dal Popolo della Libertà così come interpretato dal suo segretario Angelino Alfano al momento del suo insediamento, e il nostro passato che affonda le radici nella storia stessa del Paese.

Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.

Vi è stato infatti un lungo tempo nel quale la rappresentanza politica di quella maggioranza silenziosa costituita dai moderati era prevalentemente affidata al partito unico dei cattolici, di fatto un “braccio secolare” della Chiesa. E nel sistema politico italiano la distinzione tra credenti e non credenti è stata a lungo ragione scriminante di appartenenza. L’esaurirsi di quell’esperienza, unitamente alla fine dell’equilibrio bipolare e allo smantellamento delle cattedrali ideologiche, ha portato i cattolici a collocarsi nei diversi schieramenti in ragione delle diverse convinzioni e sensibilità. Nel centrodestra, con l’avvento di Forza Italia, persone di diversa estrazione e provenienza culturale si sono riunite in un solo partito. Forza Italia ha tenuto insieme, in una casa comune, cattolici e laici che, tuttavia, avevano già superato l’antica pretesa laicista di una Chiesa silente ed estranea al dibattito pubblico. O peggio di una Chiesa che sia presente e assente a intermittenza a seconda di come fa più comodo.

Il PdL può considerarsi un prolungamento, oltre le colonne d’Ercole del Ventesimo secolo, della medesima traiettoria ideale. Anch’esso è partito di laici e cattolici; di credenti e non credenti. Di fronte alle nuove egemonie relativiste e nichilista avverte però il bisogno di proporre come condivisi e irrinunciabili pochi essenziali principi tratti dal cuore di quella tradizione cristiana che è anche parte, la più rilevante, della nostra tradizione nazionale. Non a caso si disse che il suo autentico atto di nascita fu quella drammatica riunione del Consiglio dei Ministri in cui il governo, con l’unanime consenso di credenti e non credenti, tentò invano di bloccare la morte di Eluana Englaro.

Nel contesto attuale, dunque, vagheggiare riedizioni di un partito unico che possa comprendere tutti i cattolici e assumere una dimensione confessionale e fideistica come comune denominatore non solo sarebbe anti-storico; sarebbe anche un errore politico. Il che, naturalmente, non significa che tutti i cattolici che attualmente militano in partiti diversi siano destinati a rimanere divisi in eterno: il cantiere della grande casa dei moderati si prefigge anche di abbattere determinati steccati. Significa, piuttosto, che la ricerca di un terreno comune deve passare attraverso i contenuti e non attraverso i contenitori; deve fondarsi sulla laica condivisione di pochi principi non negoziabili e non sulla geometria variabile di scelte contingenti che portano a relavitizzare quegli stessi principi; soprattutto, deve saper cogliere il fermento che proviene dal basso, che muove dalla società civile, dai corpi intermedi, dall’associazionismo – penso ad esempio alle iniziative del Forum – e si irradia attraverso i fertili canali della sussidiarietà. In questo senso, l’affermazione del modello del “partito del fare” è una conquista positiva di pragmaticità perché riconduce la politica al perseguimento del bene comune. E’ altrettanto importante però – lo intuì già Tocqueville nel suo viaggio in America quasi duecento anni fa – che il pragmatismo resti ancorato a una piattaforma ideale che non liquidi come sovrastrutture un afflato di religiosità, affinché il “fare” non scivoli progressivamente verso il “fare per sé” o, al più, nel “farsi gli affari propri”.

Noi e loro

Su questo terreno il PdL – partito che vuole conservare una vocazione maggioritaria – giocherà una sfida importante con i propri avversari. Una differenza tra noi e loro sta proprio nel perimetro del campo di gioco. Per noi questo è delimitato da alcuni principi, pochi ma non negoziabili, laici ma radicati nella nostra tradizione cristiana, in grado di governare la modernità senza lasciarsene soggiogare e di fornire alla questione antropologica che sta investendo il nostro secolo una risposta valida per credenti e non credenti. Mentre per loro il campo di gioco non esiste o, meglio, ha contorni indefiniti perché tutto è relativo e nulla resiste al desiderio di un individuo, perché nulla preesiste alla rivendicazione di un momento.

Venute meno le rassicuranti paratie ideologiche, infatti, di fronte ai pressanti interrogativi del nuovo secolo alla necessità di ricatalogare il proprio rapporto con la religione, la sinistra dapprima ha deciso di non decidere, facendo della cosiddetta “libertà di coscienza” una opzione sistematica e non più residuale. E poi, lungo questo crinale, ha progressivamente spostato il proprio baricentro verso un radicalismo di massa che è di fatto divenuto la sua ideologia portante. Tutto ciò non deve sorprendere: i nomi dei partiti cambiano, cambiano i simboli e anche le feste si chiamano in maniera diversa, ma le mentalità restano. E quelli che ieri pensavano di cambiare il mondo e portare il paradiso in terra perseguendo l’uguaglianza attraverso la pianificazione socio-economica, oggi hanno trasferito la loro pretesa di perfettismo dal terreno sociale a quello antropologico e vorrebbero perciò che fosse dato all’individuo di controllare ogni istante della sua esistenza, dalla culla alla bara, anzi anche prima della culla e magari anche dopo la bara.

Anche per questo motivo molti dei cattolici che si erano orientati verso il centrosinistra sono rimasti spiazzati: perché la nuova dimensione identitaria della sinistra italiana, per scelta consapevole o forse per inerzia, si è di fatto costruita contro di loro, al punto da marginalizzarne il contributo e vivere la loro presenza quasi come un fastidio.

La nuova questione sociale

Coloro che resistono nelle fila della sinistra, rimpiangono il tempo nel quale la questione sociale rappresentava il terreno di incontro privilegiato fra i cattolici e la sinistra, fino a fare del catto-comunismo la vera ideologia italiana. E, più o meno apertamente, accusano la Chiesa di Ratzinger di privilegiare le battaglie legate alla nuova sfida antropologica, abbandonando gli sconfinati territori dell’ingiustizia sociale.

Una laica considerazione dell’enciclica Caritas in Veritate – il documento che forse con maggiore pregnanza ha saputo interpretare le novità epocali del nuovo millennio – aiuta a comprendere la falla di questo ragionamento. Essa nega alla prospettiva d’azione del riformatore cattolico i due tempi: quello del mercato produttore d’ingiustizie e poi quello del riformatore cattolico che le raddrizza. Il Papa ci dice che nella società della globalizzazione il tempo è unico e che, per questo, l’opera di riforma deve investire il meccanismo di mercato sin dalla sua genesi. Ci dice ancor di più: che senza andare alla radice, senza affermare la centralità della persona sin dalla sua origine; senza fissare il diritto alla vita come inalienabile non può esserci solidarietà, considerazione dell’altro, anelito alla giustizia. Ci spiega insomma come non vi possa essere scissione tra la questione antropologica e la questione sociale: anche per esse il tempo è unico.

L’Europa come meta necessaria

Ed è proprio questa unicità di tempo che mette in comunicazione i valori della tradizione nazionale – quelli che nel panorama continentale incarnano l’eccezione italiana – con l’imperativo di rinnovare la sfida europea.

A ben vedere, infatti, è stato proprio lungo il crinale della sfida antropologica che si è disputata la partita dell’identità europea: fra chi pensava che l’Europa dovesse fondarsi su diritti individuali sempre più avanzati e in grado di produrre sempre altri diritti, in una pretesa di sconfinata autodeterminazione, e chi riteneva invece che l’Europa dovesse crescere a partire dalle sue radici, da quella tradizione scolpita nelle nostre città e nelle nostre cattedrali, perché negare all’Europa le sue radici cristiane significava dotarsi di una carte di identità senza voler indicare il colore dei propri occhi o il nome dei propri genitori.

Potrebbe sembrare che quella sulle radici cristiane dell’Europa sia una sfida retrò che guarda al passato; peggio, una battaglia ideologica o, addirittura, nominalistica. Oggi, invece, ci si accorge delle conseguenze concrete di quel peccato originale.

La crisi che stiamo attraversando, che si manifesta sotto forma di crisi finanziaria, è infatti anche una crisi di identità. Il metodo attraverso il quale l’Europa è stata costruita – fissare un obiettivo e in nome di quell’obiettivo operare un trasferimento di sovranità – ha infatti funzionato finché era viva la comune consapevolezza di cosa fosse l’Europa, da dove venisse e su quali ideali si poggiassero le sue fondamenta. Nel momento in cui è svanita questa consapevolezza, e si è ritenuto di poter cancellare con un tratto di penna le origini e le tradizioni, alla sfida più avanzata che l’Unione si è posta di fronte – quella della moneta unica – non è corrisposto un trasferimento di sovranità. Ogni adeguamento istituzionale è stato avvertito come sopruso e oggi ci troviamo di fatto con una moneta governata da 17 Stati con divari che si allargano invece di rimarginarsi e steccati che si alzano invece di essere abbattuti.

E’ dunque la consapevolezza di questa crisi che proietta naturalmente il nostro percorso verso l’orizzonte di quel popolarismo europeo che primo scorse nella tradizione cristiana un antidoto alle ideologie novecentesche che avevano diviso e straziato il Vecchio Continente.

Oggi il popolarismo europeo non è certo immune dalla dimensione di crisi che attanaglia l’Europa. Ma solo a chi sa riconoscere le proprie radici e la propria famiglia di provenienza è possibile ricostruire il filo di una storia e, partendo da questa, comprendere quali siano i passi necessari affinché la propria tradizione possa ancora parlare al presente e risalire la china. E’ un vantaggio non da poco che abbiamo in questo tempo di smarrimento. A noi saperlo custodire, valorizzare, farlo fruttificare.