“Non si può parlare di riforma fiscale senza decidere di abbassare le tasse”
06 Aprile 2010
Superato lo scoglio elettorale, la parola d’ordine è procedere con le riforme, prima di tutte quella fiscale, “la più grande riforma che uno può immaginare in campo economico”. Giulio Tremonti è uno che misura le parole, pesa i giudizi e agisce solo quando le condizioni lo permettono, senza mai rischiare neppure un euro. E’ uno prudente, come lui stesso ama definirsi. E per questo, più d’una volta, il suo carattere autoritario e le sue decisioni hanno fatto registrare frizioni con l’anima più liberale del Governo e del suo partito. Nel Pdl tutti sono d’accordo su un punto: il deficit non deve essere aumentato nemmeno di un euro perché l’Italia, con il terzo debito pubblico del mondo, non può permetterselo. Ma più di qualcuno sostiene che seppure l’obiettivo della tenuta dei conti pubblici non sia in discussione, questo non possa e non debba esaurire l’orizzonte della politica economica e fiscale. Uno di questi è certamente il presidente della commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri, che dopo essersi scontrato col ministro in sede di analisi e approvazione della Finanziaria lo scorso anno, ammonisce: se noi troviamo il modo di tagliare la spesa, possiamo ridurre le tasse senza dover gravare sul deficit di bilancio. Il resto, avverte Baldassarri, sono solo spot.
Baldassarri, come immagina la riforma fiscale?
Per quello che mi riguarda, dicesi riforma fiscale quella che riduce la pressione fiscale sulle famiglie e sulle imprese. Al contrario, non è riforma fiscale quella fatta a parità di gettito. Siccome la “botta” di Prodi-Visco-Padoa Schioppa ha portato la pressione fiscale quasi al 44%, il Pdl e il governo di centrodestra devono almeno porsi come obiettivo di tornare alla soglia lasciata nel 2006, cioè al 40%.
Sta bocciando Tremonti?
Semplicemente, indico un’altra strada.
Il progetto di riforma fiscale del ministro si basa innanzitutto sul passaggio della tassazione dalle persone alle cose, quindi sullo spostamento progressivo del carico dell’Irpef alle imposte indirette come l’Iva. Non è d’accordo?
Questi sono solo slogan. Ripeto: se non c’è un percorso che riduce le tasse alle famiglie e alle imprese e c’è solo lo spostamento fiscale a mio parere non si può parlare di riforme fiscale. Se faccio una riforma fiscale a parità di gettito non sono costretto a tagliare la spesa pubblica negli sprechi, nelle malversazioni e nelle truffe. Se invece faccio una riforma fiscale che abbassa le tasse devo tagliare la spesa corrente, che peraltro ha raggiunto livelli del 50% del Pil: è un importo enorme.
Non è che dopo la contro-manovra, come venne ribattezzata lo scorso anno la sua risposta di Finanziaria a Tremonti, arriverà anche la contro-riforma fiscale?
Chi mi conosce sa che la mia linea è la stessa da vent’anni. L’ho indicata mesi fa, la ribadisco ora. Fuori dalla linea che indico non c’è riforma fiscale, c’è il gioco delle tre carte. Per me la riforma fiscale ha un nome e un cognome.
Quali?
Il nome è coefficiente familiare, con deduzioni, fatto per le famiglie; il cognome, per le piccole e medie imprese, è abolire il monte salario dall’Irap e poi progressivamente l’intera Irap. La gente prima di tutto vuol sapere quanto paga di tasse, le interessa un po’ meno come gliele fai pagare, se con l’Iva, con l’Irpef, l’Irpeg o l’Irap. L’abbassamento della pressione fiscale è nel codice genetico del Pdl, a maggior ragione perché dobbiamo attuare il federalismo fiscale.
Già in passato indicò due voci precise da tagliare: gli acquisti delle pubbliche amministrazioni e i contributi a fondo perduto. E’ sempre di quell’idea?
Certo. Bisogna aggredire le due voci di spesa che sono cresciute di più e che sono più sospettabili di essere oggetto di sprechi e malversazioni e non di servizi sociali ai cittadini, quindi gli acquisti di tutte le pubbliche amministrazioni (che sono esplosi del 50% negli ultimi 5 anni) e i contributi a fondo perduto che facciamo finta di chiamare “sostegni agli investimenti” o “sostegni all’occupazione” o “sostegni alle imprese”, ma che da trent’anni fanno tutt’altro. Su queste due voci sguazzano 100-200mila italiani cioé tutti quelli che fanno parti delle congreghe e in qualche caso anche di grandi organizzazioni criminali. Però dall’altra parte ci sono 57 milioni di italiani.
Cosa ha pensato quando ha sentito che oltre la metà di quegli italiani denuncia redditi inferiori ai 15.000 euro all’anno e meno dell’1% dei contribuenti supera quota 100.000 euro?
Mi è venuto in mente il mio amico Visco.
Cosa c’entra Visco?
Io e lui da oltre venti anni ci contrapponiamo su come si fa la lotta all’evasione. Io non ho cambiato idea e neppure lui. Lui pensa che si faccia con le vessazioni e con i controlli burocratici. Io penso, da liberale, che la lotta all’evasione si faccia con le detrazioni, cioè col conflitto d’interesse tra chi compra e chi vende, quindi allargamento la possibilità di deduzioni di tutte le spese che la famiglia ha. Le faccio un esempio concreto, che è una delle proposte fatte in Finanziaria (come anche il quoziente familiare).
Le cedolare secca sugli affitti?
Sì, con deduzione parziale dell’affitto per l’affittuario. Questa è un’altra pietra fondante della riforma fiscale perché i dati ufficiali accatastati presso l’Agenzia del territorio dicono che 10milioni e 32 mila abitazioni in Italia sono utilizzate né deal proprietario, né da un inquilino: quindi sono palesemente indiziabili di affitti neri. Se metà di quelle case emergessero, oltre alla legalizzazione di un settore si avrebbero degli effetti economici perché la cedolare secca con deduzione parziale dell’affitto darebbe ben 2 miliardi di euro di gettito in più. Questa è la lotta all’evasione: mettere in sinergia interessi. L’esempio storico ce lo abbiamo con le detrazioni del 36% sulle ristrutturazioni edilizie, attraverso le quali si è aumentato il gettito.