Nucleare, energia e il futuro del regime: che succederà in Iran?
27 Giugno 2009
Come ormai i lettori avranno capito, questa non è una rassegna stampa di politica internazionale. Le nostre scarse forze non lo permettono. Così abbiamo ristretto l’area geografica di interesse a quello che si ora viene definito “Medio Oriente allargato” per indicare i paesi che vanno dal Medio Oriente vero e proprio fino all’Asia centrale, comprendendo quindi l’Afghanistan e il Pakistan; in più, per motivi conseguenti e perché nostri alleati, seguiamo gli Stati Uniti e la loro politica estera per questa area, ma meglio sarebbe usare il termine “grande strategia” per indicare un ventaglio di politiche che vanno, appunto, dalla politica estera alla sicurezza, dalla diplomazia alla politica economica. Rispetto a questi temi cerchiamo in internet principalmente documenti, paper, articoli anche di quotidiani che servano a fornire un’idea di quello che succede. Certo sarebbe meglio tradurre i documenti, ma come potete constatare è veramente impossibile per il rapporto tra mole e forze a disposizione. Speriamo solo di riuscire a fornire spezzoni di discorso che possano servire a dare un’idea o, se uno vuole, a indicare la strada per fondare ragionamenti più approfonditi.
Quindi cominciamo con l’Iran. Sperando che la situazione in Iran non si chiuda e la lotta per la democrazia prosegua, è interessante capire: 1 che cosa succeda veramente, quali siano cioè le forze in campo, 2 cosa cambierà nella regione, 3 se la corsa a dotarsi di armi nucleari, in caso di cambiamento di regime a Teheran, cessi, 4 quale sia per l’occidente la migliore strategia per confrontarsi con le smanie atomiche iraniane.
1) Innanzitutto un’analisi accurata del voto a cura dell’Istituto di Studi Iraniani della Chatman House che mostra tutte le incongruenze, cialtronerie, frodi e svarioni sostenute dal regime.
Luttwak sostiene che a questo punto l’unico risultato certo che comunque rimarrà è la rottura formale e sostanziale delle elitè al potere, tra gli ayatollah e i nuovi pretoriani alla Ahminejad, tra riformisti e conservatori e tra fazioni politiche. Quindi in pratica si delineano tre gruppi: i fanatici estremisti, i conservatori e i riformisti liberali (minoritari).
2) L’Iran, con i suoi 70 milioni di abitanti, è collocato in una posizione geografica strategica a cavallo del mar Caspio e del Golfo Persico e infatti la sua influenza si espande dal Mediterraneo all’Indo e quindi non stupisce che l’attenzione con cui i paesi dell’area seguano i fatti di Teheran. La prima considerazione parte, secondo Kaplan, dal fatto che l’Iran è un paese dalle forti, radicate, strutturate e diversificate tradizioni istituzionali:l’Iran degli ayatollah non è mai stato così monodimensionale come l’Iraq di Saddam. In secondo luogo, si consideri che un Iran riformista si porrebbe un’altra volta alla guida di un qualsiasi movimento democratico in Medio Oriente, ricalcando le orme della rivoluzione scita che si era posta come avanguardia di tutti i mussulmani rompendo il classico monopolio sunnita.
Comunque sia, la conclusione è che i paesi a maggioranza sciita (anche l’Iraq e il Libano) sono oggi i più vivi, politicamente parlando, delle burocrazie sclerotizzate sunnite. E infatti dalle capitali del mondo mussulmano, pur così ostile agli sciiti e agli iraniani, non giunge nessuna voce di protesta contro la repressione, spaventati come sono che le istanze di democrazia si diffondano anche nei loro paesi.
Un’altra conseguenza è la squalificazione, agli occhi della pubblica opinione mussulmana mondiale, del regime teocratico che appare più interessato a mantenere il potere che a svolgere il suo lavoro di guida spirituale (e quindi sembra naturale, per contrappeso, che la corrente quietista rappresentata dal Grande ayatollah Sistani ne sia rafforzata, ndr).
3) Comunque vadano le cose in Iran, è improbabile che cambi la politica nucleare. Le scelte atomiche infatti sono “radicate nella psiche nazionale. Sono iniziate decadi fa e abbracciate dall’intero spettro politico iraniano”. Non solo: è vero che si può sempre cambiare, ma non bisogna dimenticare che Moussavi negli anni 80 fu uno dei primi supporter del programma nucleare iraniano e come primo ministro approvò l’acquisto delle centrifughe sul mercato nero.
4) Un documento“Which Path to Persia? Options for a New American Strategy toward Iran” (“Quale strada per la Persia? Opzioni per una nuova strategia americana verso l’Iran”) di uno dei più quotati think thank democratici, la Brookings Institution, offre un’amnalisi lucida. L’amministrazione Obama ha davanti a sé una serie di opzioni, da quella diplomatica, all’intervento militare, ma nessuna sembra dotata, secondo gli autori, di probabilità di successo significativa. Rimane la scelta del conteinement, cioè dell’accettazione dello stato di fatto della dotazione nucleare iraniana, scelta già intrapresa riguardo agli altri due casi storici dell’Unione Sovietica e della Cina. Ma allora questa strategia richiede un vasto accordo internazionale, l’organizzazione di una cintura di paesi amici, a guida americana, stretta attorno all’Iran e anche una forte azione economica. Infatti la dipendenza dalle tecnologie occidentali è uno dei punti dolenti di un’economia iraniana che si basa quasi tutta sull’esportazione di petrolio. Alcuni studiosi del settore indicano che le risorse petrolifere del paese siano in declino, fatto legato sia alla crescita della domanda interna che ad un impoverimento naturale dei giacimenti. In questo caso, l’unica soluzione per mantenere costanti la produzione e l’esportazione risiede nell’aumento di produttività raggiungibile solo attraverso nuove e migliori tecnologie di cui l’Iran non può disporre, ma deve importare, dimostrando così tutta la sua vulnerabilità.
USA
Sempre sul tema del petrolio, un documento della Rand Corporation riguardo alla sicurezza e fonti energetiche sviluppa uno futuro scenario per gli Stati Uniti a causa della dipendenza dalle esportazioni di tre quinti di questa materia prima. Attualmente, a causa anche della totale integrazione del mercato mondiale del petrolio e della pluralità di fonti di approvvigionamento non c’è alcuna possibilità di blocco; il rischio, alto, è semmai quello di una crescita dei prezzi di questa materia prima a causa di eventuali ricatti politici e legato un aumento dei consumi.
In una recensione del lavoro del think thank specializzato in sicurezza, pubblicata sull’ Energy Bullettin, si sostiene che “mentre il lavoro è condotto dal punto di vita degli Stati Uniti e si occupa solo dei problemi di questo paese, le conclusioni si adattano ad ogni nazione dipendente in tutto o in parte dalle importazioni di petrolio”.
Sempre parlando di economia, una bella e chiara esposizione delle cause della crisi economica che ha colpito il mondo a partire dagli Stati Uniti. Si noti la tranquillità di come si chieda al più presto il ritiro della mano pubblica dal settore privato e come non si sia assolutamente teneri nei confronti di quei privati che si sono imbarcati in mutui insostenibili per acquistarsi la casa.
Infine una sintesi delle nuove scelte relative alle scelte strategiche degli Stati Uniti. Fino ad oggi infatti le forze armate erano state preparate per affrontare allo stesso tempo due sfidanti convenzionali e un impegno minore. Adesso, secondo le nuove linee, il Pentagono deve essere preparato a sfide impreviste difficilmente classificabili che vanno dalla guerra tradizionale, alle guerre asimmetriche fino alle calamità nazionali. L’esempio classico adottato in questi casi è quello del conflitto del 2006 che vide fronteggiarsi Israele e gli Hezbollah libanesi i quali impegnarono Tsahal con ogni tipo di mezzo, dalla guerriglia ai razzi più sofisticati. Da qui il concetto di nuovo conio di “guerra ibrida”.
Afghanistan
Il 20 agosto si terranno le elezioni presidenziali e provinciali, mentre quelle per l’Assemblea nazionale e distrettuali sono programmate per il 2010. Come si capisce facilmente, la tornata elettorale rappresenta un’importante tappa verso la normalizzazione o verso il caos. Duro l’ammonimento dell’International Crisis Group in un documento dove si rileva che la coalizione ha perso il suo momento d’oro per rafforzare le istituzioni, mancando anche l’obiettivo di realizzare l’anagrafica elettorale.
Anche da un punto di vista militare le notizie che giungono sono sempre una doccia fredda. Da una parte in giugno si è assistito ad un incremento del numero delle azioni talebane che hanno raggiunto un picco dai tempi della caduta del regime del mullah Omar: più di 400. Ma purtroppo è ancora presto per vedere se la nuova strategia anti rivolta inaugurata da Petraeus e dal generale Crystal stia dando i suoi frutti. Essa infatti richiede una vera e propria “svolta culturale” per riprendere le parole di quest’ultimo e per una visione completa si può leggere per lo meno l’introduzione dell’ottimo lavoro dell’equipe di Petraeus, “Il Field Manual” vero capolavoro che mischia antropologia a strategia. Uno dei cambiamenti più evidenti di questo aggiustamento strategico è rappresentato dal rallentamento nell’uso dei bombardamenti condotti attraverso i droni a causa dell’alto numero di civili colpiti. Un altro pilastro fondamentale è rappresentato dalla messa in sicurezza della popolazione, come mostrano le operazioni, ad esempio, condotte dai soldati canadesi che operano procedendo villaggio per villaggio, a macchia d’olio. In secondo luogo, cercando alleati tra le tribù dove operano i talebani: da qui la triste notizia dell’uccisione di un capo tribale vicino alla coalizione, ma in questo campo ci sono da segnalare anche i primi successi non certo banali. E’ Il caso della tribù lashkar che si è schierata a fianco dei governativi, fatto stigmatizzato anche dal generale Petraeus.
Un video terribile nel suo freddo realismo (ma sembra un video gioco!) mostra un elicottero AH-64 Apache americano che, in risposta ad un attacco, colpisce un gruppo di insorti. La didascalia riporta il dialogo tra i membri dell’equipaggio che si assicurano, prima di sparare, della lontananza dei nemici da obiettivi civili.
Pakistan
E’ difficile sapere cosa pensa il mondo istituzionale e politico pakistano; di solito leggiamo le parole, ottime per altro, di Ahmed Rashid, autore di un numero notevole di libri sull’argomento. Ma adesso abbiamo anche questo articolo di estremo interesse di un ufficiale dei potenti servizi segreti pakistani (ISI) che spiega la situazione odierna della lotta contro gli insorti fondamentalisti. Bisogna tener presente che quello che sta accadendo in Pakistan, cioè la guerra tra talibani locali e afghani, da una parte, contro il governo alleato degli americani dall’altra, è qualcosa di sconvolgente: è la prima volta infatti che avviene un conflitto all’interno dello stesso mondo sunnita e non, come sempre, contro un nemico esterno come quello storico, l’India. E infatti una delle prime domande a cui l’ufficiale deve retoricamente rispondere è se questa è una guerra del Pakistan o combattuta per altri; la risposta è che sia adesso inutile discutere sulle radici storiche del conflitto, di chi sia la colpa: l’importante è vincere.
Internet e il mondo arabo
In questi giorni sono apparsi decine di articolo sull’importanza delle nuove tecnologie come media per la comunicazione del movimento di protesta. Ci sembra quindi estremamente utile questo link ad un lavoro enorme condotto dalla Harvard University: mappatura dell’universo in rete proveniente anche dal Medio Oriente e dall’Iran.
Arabia Saudita-USA
Anonime “manine” hanno recapitato agli avvocati che difendono le vittime dell’11 settembre dei documenti classificati top-secret prodotti dalle agenzie di sicurezza americane riguardo il coinvolgimento di alcuni familiari della casa regnante saudita relative al finanziamento a Al Qaida, gettando nell’imbarazzo più totale l’amministrazione Obama.
Teoria
Il celebre giornalista e saggista Robert Kaplan in un bell’articolo dal titolo “La rivincita della geografia” ci spiega, o ripete in modo nuovo, la tesi che il realismo e il pragmatismo sono, dall’11 settembre, i registri funzionanti della politica internazionale. Finite le illusioni sul nuovo ordine mondiale, sulla fine della storia seguite alla caduta del muro di Berlino, la situazione mondiale sembra più vicina all’anarchia dello stato di natura di Hobbes che a quella della kantiana pace universale dei neo liberali wilsoniani o anche dei neoconservatori.