Obama ha scelto un regista per riscrivere il thriller di British Petroleum

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Obama ha scelto un regista per riscrivere il thriller di British Petroleum

04 Giugno 2010

La difficoltà attuali della presidenza Obama si possono riassumere in due fatti avvenuti negli ultimissimi giorni. Lunedì, festa della memoria dei caduti di tutte le guerre combattute dagli americani, Barack Obama doveva tenere un discorso nella città simbolo della sua fortuna politica, Chicago. Un temporale biblico lo ha costretto a rinunciare, invitando gli infreddoliti convenuti a mettersi a riparo nelle auto, e rapidamente, per evitare la tempesta di pioggia e vento. Martedì, sfinito e angosciato dagli insuccessi della Bp per tamponare l’emorragia di greggio riversato in mare, ha convocato il regista James Cameron, l’autore di “Avatar”. Le due notizie, di per sé poco significative, riassumono però bene la situazione: un misto di sfortuna e comicità. La sfortuna è imprevedibile, colpisce dove vuole, a dispetto dei desideri e degli operati umani. Ma convocare un regista hollywoodiano per tappare la falla assassina e inquinante nelle profondità oceaniche, suscita perlomeno l’ilarità.

Se non arriveranno numi da Cameron, prossimamente vedremo convocati nel palazzo presidenziale Indiana Jones, Spiderman, Superman? E se nei prossimi giorni apparirà nei pressi di Washington Arnold Schwarzenegger, lo sarà nelle vesti di governatore della California o in quelle più probabili di  Terminator? Certo James Cameron è grande appassionato di misteri viventi nelle profondità marine, alle quali ha dedicato un film di culto come “Abyss” (1989) e un documentario affascinante  come “Aliens of the Deep” (2005). Ma nei due lavori di finzione cinematografica la scienza viene piegata alle ragioni meno razionali della fantascienza. Quindi l’inquilino della Casa Bianca per scongiurare la catastrofe ecologica del Golfo del Messico pensa di ricorrere a interventi fantascientifici o extraterrestri?             

Ma passiamo dalla superficialità alla sostanza. Da tempo uno spettro si aggira alla Casa Bianca. È il fantasma di Jimmy Carter. Carter è stato il trentanovesimo presidente degli Stati Uniti. Democratico, sempre allegro, ricco sfondato, ottimo giocatore di golf e buono come il pane. Alla pari di Barack Obama è capace di  tenere discorsi, improntati al richiamo evangelico, di altissimo livello. Per il partito democratico fu prima il candidato di una storica vittoria, e poi quello di un’altrettanto storica disfatta. Elenchiamole. Carter sconfisse il repubblicano Gerald Ford alle elezioni presidenziali del 1976. Su Ford pesava il fardello di Richard Nixon. Infatti Ford era diventato presidente nel 1974, essendo il vice di Nixon, costretto alle dimissioni per lo scandalo Watergate. La ferita del Vietnam, la durissima crisi industriale, la recessione, la disoccupazione a livelli stratosferici, il discredito caduto sui repubblicani, misero il vento alle ali di Carter, che vinse a valanga, come Obama contro il povero John McCain, impallinato da responsabilità non sue.

In campagna elettorale il sorriso smaltato di Carter promise di tutto. Non solo l’America, ma anche il mondo sarebbero stati riformati. Persino l’aria, giurò, sarebbe diventata più respirabile. Invece non cambiò un bel niente. La sua presidenza si rivelò grandiosa nelle aspettative, alle quali fecero seguito altrettante grandiose delusioni. Il presidente della rivincita democratica non ne azzeccò una, e finì umiliato nel tentativo di mostrare i muscoli, quando l’operazione militare per liberare gli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran, prigionieri dal nuovo governo dell’Iran, retto dall’Ayatollah Khomeini, fallì miseramente. Il blitz aveva un nome grintoso: “artiglio dell’aquila”. Si rivelò una scorribanda di polli. I democratici, annusata la catastrofe imminente, provarono a scalzare Carter nella successiva consultazione presidenziale. Ma il presidente uscente tenne duro, superando sul filo di lana Ted Kennedy alle primarie. Quindi andò allo scontro con il repubblicano Ronald Reagan nel 1980. Una valanga seppellì le aspirazioni di Carter. Un massacro elettorale di proporzioni bibliche.

Il nuovo inquilino della Casa Bianca non ha mai fatto mistero di ammirare Carter. I due hanno, tranne lievi differenze, la stessa visione del mondo. Anche in fatto di religione il battista Carter e il protestante Obama sono orientati sulla stessa linea d’onda. Ma evocare Carter, equivale ad evocare un fantasma. Il fantasma della débacle politica. E Obama, esauritasi rapidamente la luna di miele della grande rivoluzione democratica, da un po’ di tempo ha sonni tormentati. I sondaggi di gradimento al suo operato da mesi indicano il basso, e nelle ultime settimane puntano paurosamente all’abisso. Tutti si dichiarano delusi dall’azione di Obama. Uomini e donne, giovani e vecchi, tradizionalisti e progressisti, bianchi e neri, occupati e disoccupati, democratici, repubblicani e senza partito.

Obama aveva promesso una drastica inversione di tendenza sul piano climatico. Disattesa. Aveva promesso investimenti per le energie rinnovabili: ha aumentato l’apertura di centrali nucleari.   La catastrofe ecologica che dal Golfo del Messico si è abbattuta soprattutto sulla Louisiana, sta diventando ciò che l’uragano Katrina fu per George Bush. Aveva promesso la fine della guerra e l’impiego delle risorse economiche in investimenti sociali. Disattese entrambe. Aveva promesso un nuovo dialogo con l’Islam. Disattesa anche questa promessa, con i toni minacciosi di guerra (più o meno del timbro guerrafondaio di Bush) contro il terrorismo internazionale. Aveva promesso la riforma del sistema finanziario, e non ha riformato niente. Si doveva chiudere Guantanamo. Anche questo impegno non è stato onorato.

L’unico impegno mantenuto è stata la riforma sanitaria. Ma l’approvazione, frutto di troppi compromessi, ne ha annacquato la sostanza, e non ha ancora sortito nessun effetto concreto a livello di percezione sociale. In politica estera, come dimostra la crisi turco-israeliana, costringe Obama ad una ondivaga oscillazione: non bisogna spostarsi troppo verso Israele (altrimenti si è falchi, come Bush); ma è pericoloso spostarsi troppo verso i suoi avversari (altrimenti si è colombe, ed è notorio che fine fanno). Una dichiarazione indignata per Erdogan e un voto all’Onu per Netanyahu. Insomma, l’uomo del secolo, del millennio, si sta rivelando un politico capace di suscitare grandi entusiasmi a chiacchiere, ma in realtà assai debole nella pratica governativa. Gli hanno assegnato il Nobel della pace, più sulla fiducia che non in base a fatti concreti. Si è recato a Stoccolma per pronunciare un nobile discorso, giustificando però il diritto alla guerra, inalienabile e unilaterale. Sicuramente gli sarebbe andato a pennello il premio dell’anno all’uomo “delle grandi promesse e delle vaghe risposte”.

I repubblicani dal pensiero più affilato, come Robert Kagan, lo accusano di essere diventato l’amministratore unico del declino americano, e il campione del disimpegno nella lotta per la libertà, deciso a non ostacolare le sgomitate planetarie di Cina e Russia. È presto, a poco più di un anno di governo, per capire come passerà alla storia la presidenza Obama. Il predicatore Barack Obama, un anno fa, affrontava i gradini di una qualsiasi tribuna, prima di parlare al microfono, rapido, deciso, sorridente. Poi partiva il sermone, condito da buon senso ed eccellenti intenzioni. Basta con la guerra, costruiamo ponti e asili, aiutiamo i deboli. Magari ci inzeppava qualche ricordo degli insegnamenti della madre, o della nonna, basati sulla forza dell’amore, dell’educazione e della speranza. Sul limbo dorato della speranza, Obama non lo batte nessuno. Adesso che la stagione delle prediche  domenicali è finita, la musica sembra essere tutt’altra. Il fantasma di Jimmy Carter è lì a ricordarglielo. Più tempo passerà alla Casa Bianca, più sarà difficile per Obama non seguire il destino del suo illustre e incapace predecessore. Bill Clinton ci mise poco a sbarazzarsi del fantasma. Non chiamo il regista di “Ghostbusters”. Si industriò da solo, facendo il contrario di quello che aveva promesso prima di essere eletto. E governò otto anni.