Obama punta sulla crescita per riequilibrare il bilancio

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Obama punta sulla crescita per riequilibrare il bilancio

03 Febbraio 2010

Il presidente Obama ha presentato il bilancio degli Usa per il prossimo anno finanziario che inizia in ottobre, cioè durante il 2010. Esso comporta una enorme crescita del debito pubblico, in quanto il deficit è di 1600 miliardi, con un Pil che si può stimare attorno ai 14000—14.500 miliardi. Dunque il deficit è attorno all’11 per cento del Pil.

Nella proiezione al 2020 però il rapporto fra debito e Pil se le misure di aumento di imposte e di taglio di spese fissate da Obama saranno rispettate dalla Camera e dal Senato, cosa molto difficile, dovrebbe rimanere a una quota accettabile del Pil, ossia al 77% del Pil contro l’attuale 55 per cento. Entro il 2015, in linea teorica il deficit dovrebbe gradualmente ridursi, sino ad assicurare il pareggio del bilancio primario, che è quello al netto degli interessi. Se si suppone che essi siano il 3 % del Pil, ciò vorrebbe dire che entro il 2015 gli Usa avrebbero ricondotto il loro deficit entro i parametri di Masstricht.

I programmi di aumento di imposte sono, nel complesso, più importanti dei tagli di spesa e sono destinati a gravare essenzialmente sui redditi alti ed altissimi e sui profitti delle imprese, con eccezione delle minori e con un gravame aggiuntivo su quelle multinazionali. Infatti, spirando il periodo temporale delle riduzioni fiscali attuate da Bush, Obama ne rinnova solo una parte. Inoltre introduce aggravi tributari nuovi. Così, nel decennio da qui al 2020 le imprese pagheranno 470 miliardi in più di imposte sui profitti e le banche subiranno una nuova imposta sui loro debiti a breve termine di 90 miliardi, 9 l’anno. Le multinazionali avrebbero un onere aggiuntivo di 120 miliardi, cioè 12 l’anno. Poiché questo ultimo importo è già compreso nei 470 miliardi di maggiori imposte sulle imprese, il totale effettivo di oneri fiscali nuovi su imprese e banche nel decennio sarebbe di 560 miliardi. In media 56 miliardi in più, all’anno che costituiscono, rispetto a un Pil medio annuo di 16 mila miliardi un po’ più dello 0,3 per cento, non una grande percentuale.

Dal canto loro invece i contribuenti con redditi elevati pagheranno nel decennio mille miliardi di dollari in più, cioè mediamente 100 all’anno, cioè circa lo 0,6 del Pil in più. In totale la pressione tributaria delle imposte dirette federali salirebbe di 1 punto sul Pil. Le due aliquote più elevate dell’Irpef americana aumenteranno dal 33 e 35 per cento attuale al 36% e 39%. Insomma, l’aliquota massima federale degli Usa dopo questo inasprimento dovrebbe essere di 2 punti soltanto maggiore a quella che si trova nella riforma Tremonti del 2001 che per l’imposta personale sul reddito statale è del 33% più una addizionale del 4% a titolo di solidarietà. In effetti poi in Italia l’aliquota globale, considerando il 2 per cento delle addizionali regionali e comunali, dopo tale riforma sarebbe, per i redditi maggiori, il 39% contro l’attuale 45%. Negli Usa al 39% di imposta federale sugli scaglioni di redditi più elevati, si aggiungerebbero comunque le imposte sul reddito per i singoli stati e quelle eventuali dei comuni, che variano da luogo a luogo, ma di sicuro sono più del 2% complessivo.

Insomma, il gravame sui redditi maggiori, dopo la riforma Obama, negli Usa sarà apparentemente simile a quello attuale italiano, ma in realtà un po’ maggiore. Infatti negli Usa le rendite finanziarie sono tassate nell’imposta personale sul reddito con l’aliquota progressiva normale mentre da noi sono tassate al 12,5 se si tratta di interessi. Per i dividendi e i guadagni di capitale c’è l’aliquota del 12,5 per le partecipazioni a società che non danno luogo a pacchetti di controllo, cioè sono inferiori al 5% per le società quotate e inferiori al 25% per le non quotata. Per le partecipazioni che consentono il controllo della società, cioè quelle eccedenti le percentuali appena indicate si applica l’aliquota di competenza, soltanto sul 40% dell’ammontare tassabile. Quindi per l’aliquota massima del 45%,  l’onere in questi casi è solo il 40% del 45%, ossia il 18%.

La tassazione di Obama per gli alti redditi tende a superare quella italiana. Ciò anche perché per le famiglie con redditi di almeno 250 mila dollari l’anno la tassazione dei guadagni di capitale passa dal 15 al 20 per cento. Nonostante questi inasprimenti di aliquote, comunque, il gettito aggiuntivo stimato non è così alto come ci si potrebbe attendere perché anche negli Usa ci sono molti modi legali, semi legali e illegali per non pagare le imposte sui redditi maggiori e quindi la materia imponibile tassata nell’area degli alti redditi è sensibilmente inferiore a quella guadagnata.

Gli inasprimenti tributari di Obama, però non concernono solo le imposte dirette, si riferiscono anche a quelle indirette, con riguardo a petrolio, gas, carbone e etanolo prodotti da cellulosa in quanto considerati inquinanti. Il quadro si completa con maggiori imposte su chi dà case in affitto e con aumenti dei contributi sociali per i datori di lavoro in connessione al finanziamento delle indennità di disoccupazione. Non  sono ancora note le stime per queste voci di fiscalità addizionale ma penso che nel complesso tali inasprimenti tributari di Obama siano per il decennio, di media, lo 0,5 del Pil.

In sostanza l’aumento di pressione tributaria derivante dalle modifiche legislative sarebbe di 1,5 punti circa sul Pil medio annuo. Nella spesa federale ci sono parecchi tagli, che provocano strilli e proteste, ma per quanto riguarda l’anno prossimo e per il decennio. In particolare questo è vero per i tagli drastici ai voli nello spazio. Tuttavia le diminuzioni di spesa sono quantitativamente minori degli aumenti di gettito fiscale. Nel complesso è errato affermare che Obama per ricondurre il deficit in limiti normali sta puntando sopratutto sul taglio della spesa. E’ però vero che ci sono sia dei tagli assoluti di spesa e sia dei tagli rispetto al quantum che si dovrebbe erogare per mantenere invariata la quota di spesa sul Pil.

Anche ammesso che la crescita del Pil sia inferiore a quella stimata agli uffici di Obama, che è del 4,3 per cento e che sia più realistica la stimata desunta dal consenso degli economisti che è il 3,2 per cento, ci sono poche voci di spesa che superano questa seconda percentuale e la prima. Si tratta innanzitutto della spesa per i veterani di guerra che passa da 53 a 57 miliardi con un aumento del 7,3%. Inoltre della spesa per il risparmio energetico che passa da 26 a 28 miliardi con un aumento del 7,2 per cento. Inoltre di quella per l’istruzione che passa da 47 a 50 miliardi con un aumento del 6,2 per cento e infine della spesa per i programmi internazionali che aumenta della stessa percentuale passando da circa 55 a circa 58 miliardi. In tutto ci sono aumenti di 12 miliardi di maggiori spese in questi quattro settori, mentre con le previsioni di crescita del Pil fatte da Obama la percentuale di aumento di queste voci di spesa sul Pil che manterrebbe invariata la quota della spesa federale sul Pil sarebbe di  7. Insomma c’è solo un aumento di 5 miliardi in eccesso a quello consentito dalla costanza del rapporto della spesa col Pil.

Per tutte le altre voci di spesa discrezionale ci sono diminuzioni, o con riguardo alla cifra che manterrebbe invariata la percentuale della spesa sul Pil con riguardo a quella dell’esercizio in corso. Il taglio rispetto alla invarianza del rapporto fra spesa e Pil riguarda la difesa che ha un aumento del 2,1 per cento mentre la  percentuale di crescita che manterrebbe invariata la quota della spesa sul Pil sarebbe il 4,3 % con la  ipotesi di crescita del Pil fatta dagli esperti di  Obama il  3,2 % in base al del consenso degli  economisti. La spesa per la difesa nelle previsioni di bilancio di Obama sarebbe di 708 miliardi contro i 693 dell’esercizio in corso. Se ne potrebbero 723 per manterrebbero invariato il rapporto fra questa voce di spesa e il Pil. Il “risparmio” rispetto a tale ipotesi nel bilancio di Obama e di 15 miliardi. Tagli minori di questi, ma di un ordine di grandezza rilevante si attuano anche nella spesa per i trasporti che aumenta da 76 a 77,6 con una crescita del 2,2 per cento.

Nei servizi sanitari e umanitari, a parte l’aumento di spesa dovuto alla riforma sanitaria vi è un taglio netto dello o,7 per cento da 84 a 83,5 miliardi mentre nel settore della casa e dello sviluppo urbano il taglio è del 4.6 per cento da 43,6 a 41,6 miliardi e nell’agricoltura del 53% con una riduzione da 25,4 a 23,9 miliardi.

La percentuale maggiore di tagli è nella giustizia la cui dotazione di spesa passa da 27,6 a 24,1 miliardi con una diminuzione del 12,7% e nel commercio ove essa è addirittura del 36% da 14 miliardi a 9. Questi tagli però sono insufficienti per compensare l’aumento di spesa per la sua riforma sanitaria, che è ancora incerto ma per quanto ridimensionato, sarà pur sempre notevole.

La domanda che sorge, allora è, come Obama possa promettere di passare dall’11 per cento di deficit al 3 per cento e poi forse di scendere al di sotto entro il decennio, se gli incrementi di imposte sono di 1,5 punti di pressione fiscale e non vi è una riduzione della spesa sul Pil nel 2011, posto che in tale anno entri in vigore la riforma sanitaria. La riposta è che egli gioca questa partita sul tasso di crescita del Pil che reputa possa essere annualmente di un 3,5-4% in termini monterai. Cumulando questi tassi di crescita e tenendo la spesa al di sotto di essi dello 0,5 medio annuo in un decennio si guadagnano 5 punti di risparmio di spesa. E considerando che la crescita del Pil in presenza di imposte progressive i tassi di crescita delle entrate sono superiori a quelli di crescita del Pil, con una elasticità di 0,3 sul Pil , in dieci anni si guadagnano 3 punti sul Pil di maggiori entrate. Sommati agli inasprimenti fiscali si hanno 45 punti. E quindi alla fine del periodo il bilancio dallo 11 per cento di deficit passa allo 1,5 soltanto.

Come si vede, è soprattutto il tasso di crescita che genera il riequilibrio del bilancio. Ed è questa la vera lezione che ci viene dagli Stati Uniti.