Obama sceglie Gates perché il mondo  è un posto molto pericoloso

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Obama sceglie Gates perché il mondo è un posto molto pericoloso

20 Novembre 2008

 

Barack Obama ha cominciato a mettere gli occhi sul Pentagono e pensa di offrire la guida della Difesa all’attuale segretario Robert Gates. Obama e Gates hanno avviato i colloqui e le possibilità un accordo sono concrete. La notizia è stata rilanciata dal Financial Times e chi scrive l’aveva anticipata sull’Occidentale.

 

Perché il presidente eletto cerca la riconferma di un repubblicano, uno dei principali collaboratori dell’amministrazione Bush? Obama è baciato dalla Storia e rincorre la Storia. Obama è sulle orme di John Fitzgerald Kennedy. Come Jfk nel suo governo vuole almeno due repubblicani di indiscutibile valore e Gates ha la rarissima qualità dell’uomo che sa costruire la pace e sa fare la guerra. Jfk al suo esordio chiamò al Pentagono Robert McNamara e la scelta fu saggia: un repubblicano rispettato da tutti, duttile e d’acciaio nello stesso tempo. McNamara rivoluzionò il Pentagono, la sua esperienza al fianco di Henry Ford gli servì per razionalizzare il bilancio, mixare il pensiero strategico e i mezzi di Esercito, Marina e Aeronautica. Fu il primo ad applicare criteri manageriali alla guerra, inventò nel 1962 la dottrina della risposta flessibile, diede agli Stati Uniti la capacità nucleare. McNamara fu l’uomo della Guerra Fredda e del Vietnam. La Storia gli diede la vittoria nel confronto con l’Impero sovietico e la sconfitta nella giungla dove aveva sottovalutato i rischi della guerra asimmetrica e la potenza del fattore umano.

Robert Gates è un civil servant che per trent’anni ha navigato con maestria nel mare magnum della Intelligence Community. Direttore della Cia dal 1991 al 1993, condivide con Obama il destino di figlio del sogno americano: è l’unico che è riuscito ad arrivare al vertice della Central Intelligence Agency partendo dal ruolo di semplice impiegato. Gates è entrato a Langley nel 1966 e ha servito sette presidenti, Obama (forse) sarà l’ottavo. Una carriera che è un monumento alla visione bipartisan del mestiere di top official dell’amministrazione, Gates durante i nove anni trascorsi al National Security Concil e alla Casa Bianca è stato l’uomo-ombra di quattro presidenti. La più felice definizione del personaggio viene proprio dalle sue labbra: “Mi sento un po’ come una sorta di Forrest Gump globale”. Newsweek quando George W. Bush lo chiamò a sostituire un esausto e confuso “Rummy” Rumsfeld aggiunse anche la parola “Zelig” e un dettaglio rivelatore sulla forte personalità di Gates che quando visita gli uffici di un altro uomo di Stato si diverte a far notare che l’arredamento della stanza è cambiato rispetto al predecessore. Gli altri cambiano, lui resta.

Gates per Obama può essere un’arma tattica e strategica. Tattica perché smorza l’accusa che gli viene mossa dai democratici e dai repubblicani di aver allestito un governo di “Clintonistas”, strategica perché assicura al Presidente – che ricordiamo è il Commander in Chief e ha la responsabilità di 180 mila uomini attualmente in guerra – un minimo di continuità nel settore più sensibile e in rapida evoluzione, la Difesa.

Del nuovo presidente degli Stati Uniti sono note la tenacia e la capacità di studio dei dossier. A dispetto dei piani roboanti annunciati da alcuni democratici (per esempio il taglio di un terzo del bilancio del Pentagono anticipato tempo fa dal democratico Barney Frank) sta procedendo con estrema prudenza. La scelta di Gates sarebbe un colpo per i Democratici liberal, quelli agghindati in Nancy Pelosi style, e per gli obamiani europei che vagheggiano di mettere sul pennone del Pentagono una bandiera arcobaleno. Obama però si ritrova al comando dell’esercito più potente del mondo e non può permettersi più né il Blackberry né voli pindarici. La sua dottrina strategica è ancora tutta da scoprire, l’arte della guerra per Obama finora si è tradotta in un semplice “uso più saggio delle forze armate”. Elementare, Watson.

Se applichiamo un po’ di logica a quanto sappiamo, questa saggezza dovrà tradursi in un dispiegamento più razionale dei soldati e dei mezzi sui teatri. Il problema è capire in che dimensione sarà esercitata la guerra al tempo di Obama: quella “diffusa” di Bill Clinton (che usò l’esercito in piccole ma dispendiose guerre) o quella “massiccia” di George Bush jr. (che aggredito dagli eventi programmò l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq) o magari quella “incompiuta” di George Bush sr. (che con Desert Storm lasciò il lavoro a metà) o quella “speciale” di Jimmy Carter che con l’operazione Eagle Claw si giocò la Presidenza? Sono dilemmi ai quali Obama è sfuggito consapevolmente durante la sua entusiasmante corsa elettorale.

Ho già scritto su Panorama, sull’Occidentale e sul mio blog che il punto debole di Obama è la politica estera e la confusione che regna (almeno per ora) sul modello di difesa americano per il Ventunesimo secolo. Il nuovo presidente ha visto il disastro del post-guerra in Iraq, conosce le difficoltà in cui si dibatte la Nato in Afghanistan e pensa, non a torto, che le guerre alla fine si vincano sulla terra e non con le campagne aeree. La guerra ha tre dimensioni, ma se non controlli quella terrestre, non hai grandi possibilità di vincere un conflitto, ristabilire l’ordine e la pace. Tuttavia, l’arte della guerra, da Clausewitz in poi, prevede non solo le tre dimensioni, ma lo scenario delle armi non convenzionali e la guerra spaziale che non è affatto un’elevazione altimetrica della guerra aerea, ma qualcosa di più complesso e finora poco esplorato. A questo dobbiamo aggiungere la rivoluzione tecnologica e il pervasive computing che aprono un ulteriore fronte, la guerra digitale. Sono scenari dove servono doti che Obama ha dimostrato di possedere: immaginazione e realismo.

Qualità non comuni che Obama userà per mettere le forze armate al servizio della politica estera e della Difesa degli Stati Uniti. Il bilancio del Pentagono subirà certamente dei tagli in futuro, complice più la crisi economica che un isolazionismo militare che gli Stati Uniti non possono concedersi. In un saggio pubblicato su Foreign Affairs di luglio/agosto del 2007 Obama ha spiegato di voler aumentare le capacità della fanteria (65mila soldati in più per l’esercito e altri 25mila marines) e si è mostrato molto prudente sui piani di sviluppo dell’aeronautica e sullo scudo spaziale. Lo sviluppo del caccia F22 Raptor potrebbe subire uno stop (e la Lockheed-Martin è già stata inserita tra i losers, i perdenti nel dibattito washingtoniano), così il nuovo programma di costellazione satellitare del Pentagono, il Future Combat System e il Joint Strike Fighter. La Marina è già stata ridotta ai minimi termini dall’amministrazione Bush che ha tagliato 60 navi e ridotto i fondi. La flotta navale americana è passata dalle 580 navi del 1980 alle 294 di oggi, un numero sul quale la nuova presidenza dovrà riflettere perché il dominio dei mari per gli Stati Uniti diventerà un tema delicato con il (ri)sorgere di altre potenze marittime e il terrorismo jihadista che prima o poi (ri)scoprirà il terreno di battaglia dell’acqua che in questi giorni ha destato l’attenzione per la pirateria che minaccia le rotte del petrolio e del commercio mondiale tra il Golfo di Aden, le coste del Kenya e della Somalia e l’oceano Indiano.

La Somalia (che coincidenza…) è stata citata proprio dal numero due di al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, in una registrazione audio pubblicata su un sito web islamico. L’ideologo di Bin Laden (consiglio la lettura di The Looming Tower: Al-Qaeda and the Road to 9/11 per farsi un’idea di chi sia) ha invitato i terroristi a proseguire gli attacchi contro l’America “criminale” e ha criticato Obama per il suo sostegno a Israele. Al-Zawahiri ha chiamato il Presidente degli Stati Uniti “servo negro”, lo disprezza perché è “nato da padre musulmano ma ha scelto di stare dalla parte dei nemici dei musulmani”. C’è chi pensa che sia un segnale di debolezza e non ci sono dubbi che al Qaeda ha subito duri colpi da parte degli Stati Uniti e degli alleati, ma quelle frasi aberranti, un’incitazione all’odio e al razzismo, la metafora della volontà cieca di distruzione della civiltà, ricordano a tutti noi, ancora una volta, qual è il Nemico dell’Occidente e perché dobbiamo oggi più di ieri sostenere l’America il suo Presidente. Quello che è stato sottovalutato durante la presidenza di Bill Clinton (la crescente minaccia di al Qaeda) e ha colpito l’amministrazione di George W. Bush (l’11 Settembre) è una lezione che non può conoscere l’oblio e per questo costruire affidabili scenari è il primo passo per non perdere le guerre e soprattutto per prevenirle.

La guerra è un elemento persistente della storia dell’umanità, le amministrazioni democratiche e repubblicane hanno dovuto fare i conti con questa realtà. Di volta in volta hanno inventato delle risposte alle crisi e anche Obama si troverà di fronte al dilemma dell’uso della forza. E’ un uomo sul quale si è addensato un enorme carico di speranze, alcune delle quali sono legate al buon funzionamento del Pentagono e delle forze armate della più grande e vitale democrazia del mondo. Quando Obama entrerà alla Casa Bianca, dovrà farsi molto coraggio e quando qualcuno lo inviterà a tagliare il bilancio della Difesa con l’accetta, noi speriamo che abbia al suo fianco un uomo con l’esperienza di Robert Gates e in mente una frase del generale George Smith Patton: «I miei uomini possono mangiare le loro cinture, ma i miei carri armati hanno bisogno di carburante».