Obama sull’America Latina dice tutto e il contrario di tutto

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Obama sull’America Latina dice tutto e il contrario di tutto

13 Novembre 2008

Che farà Barack Obama in America Latina? Nato in Oceania da un padre africano, cresciuto in Asia e affascinato dall’Europa, il nuovo presidente degli Stati Uniti ha proprio nell’ex-“cortile di casa” il principale buco nero della sua futura politica estera. Peraltro, in un momento agitato come pochi: narcos all’offensiva in Messico; ambasciatori statunitensi cacciati da Bolivia e Venezuela; la Bolivia che ha cacciato anche la Dea; l’Ecuador che ha già dato lo sfratto alla base Usa di Manta; le municipali in Nicaragua che hanno provocato feriti e scontri dopo le accuse di brogli dell’opposizione liberale al governo sandinista; le amministrative in Venezuela del 23 in cui Chávez sta minacciando addirittura di “mandare i carri armati” in caso di vittoria dell’opposizione in alcuni Stati chiave. E di Obama che si dice tutto è il contrario di tutto. Ha fama di colomba, ma gli esperti avvertono che probabilmente è un falco. Ha fama di protezionista, ma ha pure parlato di Pathways for Prosperity che potrebbero addirittura riportare al progetto di Bush padre e Clinton dell’Enterprise for Americas: l’area di libero scambio emisferica “dallo Stretto di Bering alla Terra del Fuoco”.

Per questo è ora il momento delle grandi manovre, e anche di quelle piccole. Quella più curiosa è probabilmente quella di Machu Picchu: un cucciolo di quattro mesi di una razza risalente a prima degli incas, che l’Associazione Peruviana degli Amici dei Cani senza Pelo ha offerto in dono a Barack Obama, dopo che questi ha reso noto di stare cercando un animale che non causi alla figlia reazioni allergiche. Un gesto fatto in via ufficiale alla stessa ambasciata Usa a Lima, e che va inquadrato nel particolare che in campagna elettorale Barack Obama si pronunciò in senso negativo sia sull’area di libero commercio nord-americana Nafta con Canada e Messico, sia sul trattato di libero commercio proposto con la Colombia, ma invece a favore dell’altro trattato di libero commercio col Perù. Altri gesti stanno venendo dai governi in teoria in questo momento più ostili a Washington. C’è il ministro degli Esteri cubano Felipe Pérez Roque che ha promesso di non dispiegare sull’isola elementi di uno scudo antimissili russo che Mosca potrebbe realizzare in risposta a quello statunitense nell’Europa dell’Est. C’è il presidente boliviano Evo Morales che, dopo aver espulso l’ambasciatore Usa a La Paz e aver cacciato anche i funzionari dell’agenzia anti-droga Usa Dea con l’accusa di aver complottato con l’opposizione, dice ora di aspettare l’insediamento di Barack Obama per presentargli le prove di quanto dice, ma anche per riavviare relazioni amichevoli. C’è Hugo Chávez che dopo aver detto che se fosse stato americano avrebbe votato piuttosto McCain e dopo aver cacciato a sua volta l’ambasciatore Usa ha però chiamato anche lui al dialogo l’”uomo nero” ed ha perfino clamorosamente abbozzato, ora che sono stati gli Usa a espellere i funzionari del consolato venezuelano a Houston con l’accusa di aver traslocato senza autorizzazione, riconoscendo il loro “errore”.

Altre mosse sono venute dall’interno degli stessi Stati Uniti. Prima dell’elezione, ad esempio, la lettera a Obama di 400 accademici e intellettuali liberal, che hanno chiesto a Obama un “cambio fondamentale” della politica Usa verso l’America Latina, in modo da cambiare alla radice le motivazioni dei forti sentimenti anti-Usa nella regione. E dopo, la rivelazione del New York Times secondo la quale Obama nella sua riunione con Bush alla Sala Ovale gli avrebbe chiesto di sbloccare un pacchetto di aiuti tra i 25 e i 50 miliardi di dollari a favore di General Motors, Ford e Chrysler in crisi: ricevendo la controproposta di far “digerire” ai democratici il contestato Trattato di Libero Commercio con la Colombia. Senza contare l’agitazione della lobby ispanica Usa: dopo aver votato per il “negro” in proporzioni del 66% chiedono ora “reciprocità”. Ovvero, mantenere le promesse di riforma della politica sull’immigrazione; legalizzare 12 milioni di clandestini; fare il gesto di fermare le continue retate contro di loro; e fare il gesto anche più importante di mettere un ispanico al governo: già la presidentessa dell’University of Texas di Brownsville Jiliet V. García è stata invitata a entrare a far parte della !squadra di transizione” in campo educativo, ma si parla anche del governatore del New Mexico Bill Richardson come Segretario di Stato; oppure di qualche incarico per il capo di campagna di Obama per la comunità latina Federico Peña, e per il rappresentante democratico per la California Xavier Becerra. Già è annunciata una grande manifestazione di latini a Washington per il 21 gennaio, il giorno dopo il suo insediamento.

Sollecitato da tanti, quello che sembra prendere tempo è proprio Obama. Ma un primissimo passo adesso l’ha fatto anche lui. Ha infatti telefonato a Lula parlando con lui per 15 minuti, e manifestandogli il suo “orgoglio” per aver avuto professore a Harvard Roberto Mangabeira Unger: proprio l’attuale ministro degli Affari Strategici brasiliano.