Obama tranquillizza i despoti mediorientali: “Con me siete al sicuro”
31 Gennaio 2009
di Fouad Ajami
"Al mondo musulmano, diciamo che siamo pronti a perseguire un nuovo cammino, basato sull’interesse reciproco e sul reciproco rispetto", ha affermato il Presidente Barack Obama nel suo discorso inaugurale. In realtà, il "nuovo cammino da perseguire" rappresenta il ritorno alla Realpolitik e alla classica politica americana in Medio Oriente. Come il Presidente ha dichiarato alla rete televisiva di Al-Arabiya lo scorso lunedì, si vuole tornare "allo stesso rispetto e collaborazione che l’America ha avuto nei confronti del mondo mussulmano negli ultimi 20 o 30 anni".
Qualunque sia il giudizio sullo stile – e i contenuti – della presidenza George W. Bush, per i suoi primi cinque o sei anni di mandato i regimi autocratici erano stati ben in guardia. L’America aveva rovesciato il governo dei talebani e la tirannia di Saddam Hussein; ed aveva indotto la Libia a temere che un destino simile fosse in serbo anche per il suo dittatore. Non fu una seducente persuasione che convinse la Siria a ritirarsi dal Libano nel 2005. Fu attraverso la fermezza che si pose fine ad un dominio di saccheggi e terrore.
La diplomazia della libertà condotta da Bush era poi andata indubbiamente smorzandosi negli ultimi anni della sua presidenza, e le autocrazie del Medio Oriente erano giunte a credere che la tempesta fosse passata, e che alcune di loro fossero state risparmiate. Ma siamo ancora troppo prossimi a quel periodo di storia per valutare le ripercussioni degli effetti dimostrativi dell’era Bush sulla cultura politica del mondo arabo.
L’idea che la libertà sia qualcosa che deve nascere dall’interno di un paese, e non possa venire portata a popolazioni lontane, è più fallace di quanto possa apparire a prima vista. Nel corso dei cambiamenti repentini che caratterizzano la storia moderna, è stata la volontà del potere – o dei poteri – dominanti nelle gerarchie tra Stati a condizionare il destino della libertà. Il grande Samuel P. Huntington aveva già descritto questa realtà attraverso dati rivelatori. Nel 1970, in ben 15 paesi democratici su 29, i regimi democratici erano scaturiti da un’occupazione straniera, o erano sorti nel periodo immediatamente successivo alla liberazione da un’occupazione straniera.
Per quanto la libertà abbia conosciuto momenti di flusso e di riflusso, il potere è sempre stato fondamentale e la libertà stessa ha necessitato della protezione delle grandi potenze. La persuasività degli scritti di Mill, Locke e Paine era rinforzata dalle armi della Pax Britannica, e dalla potenza dell’America una volta che il potere degli inglesi venne meno. In questo senso la diplomazia decisa di George W. Bush aveva portato speranza nei cuori dei mussulmani, da tempo stretti nella morsa di tirannie senza scrupoli.
Prendiamo ad esempio l’immagine di Saddam Hussein, stanato dal suo nascondiglio circa cinque anni fa: gli americani potranno anche averla rimossa dalla memoria, ma rimarrà per molto tempo tra le consapevolezze degli arabi. I dittatori possono venire deposti e giudicati. Non stupisce dunque che le dittature confinanti si indignarono alla vista di quella cattura, e dell’esecuzione che ne seguì tre anni dopo.
L’ironia è fin troppo ovvia: George W. Bush come forza d’emancipazione nelle terre mussulmane, mentre Barack Hussein Obama messaggero dagli approcci già visti e già falliti. E così la figura "provinciale" diventa portatrice del messaggio per cui i mussulmani e gli arabi non hanno la tirannia inscritta nel loro DNA; e l’uomo che vanta frammenti mussulmani, kenioti ed indonesiani come parte della sua stessa vita ed identità diviene segnale dell’ordine prestabilito. Obama potrebbe ancora riconoscere l’impatto rivoluzionario della strategia diplomatica del suo predecessore; ma fino ad ora ha scelto di non farlo.
Il breve riferimento all’Iraq nel suo discorso inaugurale non poteva essere più gelido e stringato: "cominceremo con il lasciare responsabilmente l’Iraq al suo popolo", ha asserito Obama. Ammesso e non concesso che questa non fosse la sua causa, ma un progetto intrapreso con notevole sforzo e sacrificio da parte degli americani: la guerra in Iraq ha in ogni caso posto le basi per la nascita di uno Stato a due nazionalità (araba e curda) nel cuore pulsante del mondo arabo, che sarebbe altrimenti andato perso nella locale tradizione politica di dispotismi. Sicuramente tutto questo avrebbe dovuto suscitare almeno una parola o due di plauso. Con il suo desiderio di essere "non-Bush," il nuovo Presidente è scivolato verso una visione decisamente austera delle opportunità della libertà. Il mondo straniero è da mantenere a distanza, sia emozionalmente che culturalmente. Persino l’Afghanistan – la guerra "buona" di cui la nuova Amministrazione ha accettato di farsi carico – non ha evocato versi celestiali, ma soltanto la promessa di raggiungere "una pace guadagnata duramente". La nazione ha espresso il proprio voto per una nuova via, e si è ritrovata la politica estera di Brent Scowcroft.
Dove Bush era stato in grado di vedere la connessione tra le autocrazie che regnavano nel mondo mussulmano, e la cultura del terrore che infiammava l’avanzata dei giovani soldati del radicalismo, Obama sembra pronto a scendere a compromessi con i loro governanti. Il suo "abbracciare il processo di pace" segna il ritorno alla sterile diplomazia degli anni di Clinton, nella convinzione che il terrore origini dai dolori del popolo palestinese. Obama e i suoi consiglieri si sono ben guardati dall’affermare che il terrorismo è uscito di scena, ma il messaggio immancabilmente comunicato è che possiamo tornare a badare ai fatti nostri, perché Wall Street è molto più pericolosa e mortale della tanto favoleggiata questione arabo-mussulmana.
Fino ad ora il genio politico di Barack Obama si è basato sulla capacità di sentire intuitivamente il clima generale del paese. Aveva scommesso che l’America sarebbe stata pronta per un certo tipo di politica post-razziale, ed ha avuto ragione. Individui più timorosi gli avevano suggerito di attendere, di aspettare che i tempi fossero maturi, ma l’elettorato ha risposto inequivocabilmente. Credo che Obama interpreti correttamente il senso di stanchezza e delusione del paese verso l’impegno degli Stati Uniti in cause e luoghi lontani. Per questo motivo il recente appello di Osama bin Laden per un "jihad finanziario" contro l’America appare ridondante: questa volta la distruzione è stata frutto dei nostri stessi maghi degli investimenti, e dei nostri politici.
Tuttavia, i nostri rivali stranieri e i regimi canaglia non hanno alcun obbligo di assecondare i nostri umori e le nostre necessità. Non attendono trepidanti le notizie riguardanti la crisi finanziaria, non sono come ipnotizzati dalle fluttuazioni del Dow [Jones]. So che sembra un’ovvietà, ma prima o poi sentiremo ancora parlare di loro. Ci toglieranno tutte le nostre illusioni e i nostri (neo)provincialismi.
Un comunicato proveniente dalla penisola araba conferma tale ipotesi. È stato annunciato, proprio nel bel mezzo del ciclo di notizie che riferiva come Obama avesse intenzione di chiudere Guantanamo entro un anno, che un cittadino saudita di nome Said Ali al-Shihri – rilasciato proprio da quella prigione nel 2007, per fare ritorno alla sua terra natia – era giunto nello Yemen e si era fatto conoscere nel mondo del terrore di quel paese anarchico. Per il detenuto di Guantanamo numero 372, l’Arabia Saudita era stata solo una breve tappa: dopo un supposto programma di "riabilitazione", aveva attraversato silenziosamente i confine dello Yemen dove pare abbia partecipato ad un attacco terroristico all’ambasciata degli Stati Uniti nella capitale, nel settembre dello scorso anno.
Questa guerra non è mai stata una guerra intrapresa unilateralmente dall’America, da abbandonare unicamente secondo uno scadenziario americano. Anche il nemico ha possibilità di esprimersi riguardo alle modalità secondo le quali si dipanerà il conflitto tra la potenza statunitense e l’islamismo radicale.
Erano altri tempi quando si celebrava la tanto decantata era della pace e della prosperità clintoniana, e si viveva stregati dal Nasdaq. Nell’ameno luogo di ritrovo a Davos, sulle vette delle Alpi, sapienti sicuri di sé e certi del futuro di una nuova economia hanno proclamato la fine delle ideologie e della politica. Ma tra le cime proibite della frontiera afgano-pachistana, una generazione di jihadisti che non prestava attenzione ad alcun trionfalismo economico stava preparando per noi un avvenire completamente diverso.
Ed eccoci ancora qui, questa volta rincorrendo le nostre difficoltà economiche, a chiedere che il mondo risponda alle sfide della storia secondo una lettura data da noi stessi. Non abbiamo ancora scoperto il dolce "punto zero", dove la nostra fortuna economica incontra le prerogative e le difficoltà di un mondo incerto.
© The Wall Street Journal
Traduzione Alia K. Nardini
Fouad Ajami è docente di Studi Mediorientali alla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University e Research Fellow alla Hoover Institution presso la Stanford University.