Oltre lo smart working. Una rivoluzione della pubblica amministrazione per abbattere gli sprechi e la pressione fiscale
24 Giugno 2020
Cosa c’entra la proposta di abbassare l’Iva avanzata, e poi subito ritirata, da Giuseppe Conte, con lo “smart working” oggi dominante nel settore amministrativo pubblico e privato per effetto delle misure restrittive adottate durante l’epidemia di Covid-19? C’entra, perché dimostra per l’ennesima volta come nel nostro paese qualsiasi velleità di abbassare la pressione fiscale abnorme che strangola l’economia – tanto più urgente oggi con il paese al tappeto per la recessione da Coronavirus – si schianti regolarmente contro un muro: l’impossibilità – o per dir meglio la mancata volontà politica – di tagliare significativamente la spesa pubblica, eliminando le tante sacche di spreco e parassitismo in essa comodamente annidate. Lo sappiamo bene: ogni volta che dal governo o dall’opposizione qualcuno propone l’alleggerimento di qualche imposta, si scatena immediatamente il fuoco di sbarramento di ministri e/o tecnici che richiamano i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles e la necessità di tenere sotto controllo il deficit, e la discussione regolarmente sfocia in proposte di compensare il mancato introito eventuale con l’aumento di altre tassazioni. Come è puntualmente avvenuto in questo caso, complice l’approccio marcatamente “madurista” e anti-imprese della maggioranza giallorossa, con le solite voci che invocano l’accentuazione delle imposte, già gravosissime, sugli immobili o sulle successioni, con la prevedibile conseguenza di ulteriori ondate depressive su tutta l’economia nazionale.
È evidente, da queste ricorrenti e inconcludenti dispute, come nella classe politica di governo – ma anche in una parte rilevante di quella di opposizione – non ci si renda conto che l’economia italiana viaggia perennemente con il freno a mano tirato non per una determinata distribuzione del peso fiscale tra una voce e l’altra, ma per l’insostenibilità della pressione fiscale nel suo complesso. Un’insostenibilità a cui si aggiunge l’ulteriore, ferale palla al piede dell’iperlegificazione, con annesso effetto paralizzante della burocrazia e della giustizia civile.
Se si vuole salvare l’Italia dal naufragio economico e sociale e consentirle di liberare le sue potenzialità creative ancora considerevoli, l’unica terapia efficace può essere – tanto più oggi nella “convalescenza” post-pandemica – un vero e proprio choc fiscale, cioè un taglio netto e generalizzato dell’imposizione che riporti fiducia, incrementando produzione, occupazione e consumi. Ma finché si rimane prigionieri della tagliola “saldo zero” questo choc è impossibile, e si è costretti a ragionare soltanto di spiccioli che non cambiano una virgola, o a elargire qualche elemosina assistenzialistica che aggrava ancor più i conti pubblici, scoraggiando ulteriormente produzione e lavoro (come si è visto nel tristissimo caso del reddito di cittadinanza e dei “navigator”).
E qui veniamo al tema dello “smart working”. Non c’è dubbio che nel mondo impiegatizio e dei servizi al pubblico l’epidemia di Coronavirus abbia rappresentato il brusco acceleratore di un fenomeno emerso in forma sempre più evidente già negli ultimi decenni: la progressiva marginalizzazione di molte funzioni svolte in quegli ambiti a causa della crescente disintermediazione legata alla digitalizzazione.
Ora, in sostanza, la generalizzata adozione di una “domiciliazione” degli impiegati come misura restrittiva anti-contagio (in realtà “home working” più che “smart working”) ha fatto emergere in piena luce due tendenze complementari ma antitetiche. Da un lato, esiste effettivamente allo stato attuale una ampia fetta di servizi amministrativi che può essere esercitata in digitale, in rete, senza ricorrere a uffici “fisici”. Dall’altro, tra i lavoratori dipendenti un’altissima percentuale (dalle indagini finora svolte oscillerebbe tra il 60 e il 90%) trova decisamente preferibile il lavoro casalingo a quello in ufficio, e sarebbe propensa a proseguire l’esperienza anche dopo la fine dell’emergenza. Appoggiata, in questa opzione, dai sindacati di categoria e anche dai ministeri competenti (lavoro e funzione pubblica), tendenti, come per la scuola e l’università, a ritardare il più possibile il ritorno alla normalità, secondo la linea del governo di mantenere norme di distanziamente e restrizioni il più a lungo possibile per minimizzare i rischi di recidive del virus e aumentare la percezione emergenziale di “inevitabilità” dell’esecutivo.
Perché sono complementari ma antitetiche queste due tendenze? Perché riflettono due approcci alla lunga incompatibili al tema della digitalizzazione. La “domiciliazione”, così come è attuata e concepita da molti oggi, produce infatti un calo netto nell’efficienza e nell’efficacia dei servizi al pubblico, perché diventa in sostanza un’espediente per lavorare di meno, con meno controlli, e per diradare la responsività e l’operatività dei servizi stessi nei confronti dei clienti e/o degli utenti. Viceversa, se la logica della digitalizzazione/disintermediazione fosse portata fino in fondo, resterebbero in piedi servizi e uffici “in presenza” in tutte le aree dove ciò è necessario, ma per il resto si aprirebbero enormi spazi di risparmi sia nelle aziende che – e questo è l’aspetto che qui ci interessa maggiormente – nelle amministrazioni pubbliche statali e locali.
Amministrazioni che potrebbero agevolmente tagliare spese per sedi, consumi, forniture, e ricalibrare la posizione della manodopera offrendo un maggiore ventaglio di condizioni contrattuali: dando cioè la possibilità di bilanciare l’eventuale elasticità degli orari e la libertà di movimento con una proporzionale revisione al ribasso del numero del personale, delle sue retribuzioni, delle sue progressioni di carriera, finora spesso ingessate in logiche che nulla hanno a che fare con l’effettiva utilità di molte figure al cospetto del peso economico che esse hanno per i contribuenti. O, viceversa, di valorizzare e premiare le figure tecnicamente davvero insostituibili.
Se si percorresse fino in fondo la strada della digitalizzazione e della revisione dei quadri organici di tutte le amministrazioni pubbliche, anche e soprattutto sfidando l’immancabile opposizione conservatrice e corporativa dei sindacati, si porrebbero le basi di una autentica rivoluzione nella filosofia italiana dell’amministrazione. Una rivoluzione che, sommata ad una politica ferma di costi standard su tutti i servizi e al loro pieno inserimento in una logica di mercato, aprirebbe spazi finora inimmaginati e inesplorati per una riduzione sostanziosa della spesa pubblica. Una tale riduzione potrebbe e dovrebbe essere investita, a sua volta, per restituire ai contribuenti almeno una parte dell’enorme, sproporzionato surplus di esazione fiscale accumulatosi nei decenni della democrazia repubblicana, e soprattutto a partire dal trionfo dello statalismo dagli anni Sessanta in poi.
E’ chiaro che finché al governo del paese ci sarà una maggioranza vincolata ad una visione vetero-statalista e assitenzialista della politica economica e sociale, come è quella dell’attuale coalizione Pd/5 Stelle, una tale rivoluzione rimane un’utopia, e lo “smart working”, così come le proposte episodiche di riduzioni delle imposte subito sconfessate dalla logica del “saldo zero”, rimarrà una cortina fumogena atta a coprire ulteriori privilegi di categorie già ultra-garantite, ai danni dei produttori e degli utenti/contribuenti.