Ora il Campidoglio rinunci ad essere una holding finanziaria!

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Ora il Campidoglio rinunci ad essere una holding finanziaria!

26 Giugno 2008

La polemica sul “buco” finanziario della Capitale ha anzitutto una ragione: la scarsa trasparenza della contabilità pubblica italiana. Immaginate se la stesso balletto di cifre riguardasse una qualunque società quotata in Borsa, con 25mila dipendenti ed un fatturato annuo di quasi 6 miliardi di euro: tra una dichiarazione di Alemanno e una conferenza-stampa di Veltroni, intervallate da qualche intervento di Berlusconi e Tremonti, il titolo sarebbe stato più volte sospeso e sarebbero sorti non pochi sospetti di insider trading. E già questo basta a formarsi un primo giudizio sulla vicenda. Ma scendiamo nei particolari.

Sull’entità del debito di Roma, girano ben tre versioni: la Veltroniana (6,87 miliardi), l’Alemannina (9,76) e quella della Ragioneria generale dello Stato (8,15). Non è per terzismo politico che consideriamo le prime due sbagliate e corretta quella del Ragioniere Canzio. Non è per partigianeria che riteniamo l’errore di Veltroni profondamente più grave.

Il leader del Pd, per salvare la sua immagine di buon amministratore, finge che i finanziamenti contratti dal Comune per 1,27 miliardi non siano debiti perché non iscritti a bilancio e non ancora utilizzati. Veltroni edulcora la realtà quando parla di “linee di credito non ancora utilizzate”: quei debiti sono oggetto di contratti con dei terzi e sono destinati a finanziare le nuove linee metropolitane B1 e C ed alcune opere viarie, ossia cantieri già aperti. Insomma, si tratta di debiti “fuori bilancio” a tutti gli effetti, non si può minimizzare. La Ragioneria dello Stato lo sa e, infatti, la sua stima è data proprio dalla somma dei 6,87 miliardi di debiti riconosciuti dai bilanci dell’ente con questi 1,27 miliardi.
Dal canto suo, il sindaco Alemanno prova a includere nel buco anche i finanziamenti (1,6 miliardi) che il Comune dovrà reperire nei prossimi anni per finanziare altri interventi in programma.

Così facendo, gioca al rialzo e spera che il Governo – intervenendo per coprire il buco – gli dia qualche soldo in più. E’ un po’ come quei terremotati dell’Irpinia, che riuscivano a farsi pagare i danni per abitazioni non ancora costruite: non si fa.

Da un lato Alemanno “ce prova”, dall’altro Veltroni – ed è peggio – “ce fa”, con l’aiuto di S&P (che da società di revisione dei conti del Comune ha le sue brave responsabilità).

E’ evidente che il debito cittadino abbia raggiunto livelli molto preoccupati. Un debito elevato significa tanti interessi da pagare, soprattutto in una fase di rialzo dei tassi. Secondo la Ragioneria generale gli oneri finanziari per il 2008 e il 2009 saranno, rispettivamente, 467 e 633 milioni rispettivamente. A partire dal 2009, questo è il dato più preoccupante, gli oneri debitori assorbiranno oltre il 20 per cento delle entrate correnti. Conta poco sostenere, come fa Veltroni, che Milano ha un debito pro-capite superiore alla Capitale: a Milano gli interessi passivi coprono una quota inferiore delle entrate annue, ingessano meno il bilancio rispetto a quanto accade a Roma.

Ora, vista la situazione, il Comune avrebbe davanti a sé una scelta obbligata: un taglio draconiano delle spese e, soprattutto, la cessione di alcuni asset di proprietà. Altri comuni hanno fatto così ed ogni azienda si comporterebbe in questo modo.

Nel caso di Roma, la scelta migliore (e, forse, unica) per riportare il debito ad un livello accettabile sarebbe proprio la rinuncia ad essere una holding finanziaria. Sta crescendo il partito di chi chiede la vendita del pacchetto di controllo di Acea, la municipalizzata dell’elettricità e del gas che vale i due terzi delle partecipazioni del Campidoglio: agli attuali valori di mercato, la cessione frutterebbe alle casse dell’ente circa 1,3 miliardi di euro. La rinuncia ai dividendi dell’azienda sarebbe in buona parte compensata dall’abbattimento degli interessi passivi. In più, l’uscita del Comune dalla gestione di tali servizi contribuirebbe ad aprire il mercato. Due piccioni con una fava.

Eppure il sindaco Alemanno fa orecchie da mercante, visto che il Governo Berlusconi gli ha concesso un prestito di 500 milioni di euro. Soldi dallo Stato, ergo soldi dei contribuenti italiani.

Ora, tutti gli italiani amano Roma ma, non vivendoci, non capiscono perché dovrebbero pagare il conto della sua cattiva amministrazione. L’eccesso di debito non deriva da spese sostenute nell’esercizio della funzione di centro politico e amministrativo d’Italia, ma da decenni di malagestione dei servizi di trasporto locale.

Più di un commentatore ha evocato la vicenda Alitalia: i contribuenti si trovano costretti ad erogare dei prestiti-ponte, che presto si trasformano in contributi straordinari o aumenti di capitale (temiamo che ciò avvenga anche nel caso della Capitale), a causa del rinvio di decisioni dolorose e necessarie.
Con il mezzo miliardo concesso a Roma, il Governo “rompe” il patto di stabilità che impone a tutti i Comuni italiani. In giro per la penisola, migliaia di sindaci, assessori e funzionari comunali si barcamenano quotidianamente alla ricerca di nuovi fondi, di spese da tagliare, di immobili da vendere, di attività da cedere. Nessuno sogna un tale intervento “dall’alto”.

Come nel caso della compagnia aerea, i 500 milioni sono una boccata d’ossigeno che prima o poi finirà: è opportuno che chi amministra Roma rinunci ad alcuni dei suoi gioielli di famiglia, in primis l’Acea.
Milioni di contribuenti e migliaia di comuni – soprattutto al Nord, dove la Lega già borbotta – non sono disposti a pagare dazio alla bella e inefficiente Roma.