Ora tocca a Berlusconi inaugurare la stagione delle riforme
23 Luglio 2009
Sui giornali di ieri il confronto a distanza tra Mario Draghi e Giulio Tremonti – il primo audito dalla Commissione parlamentare Antimafia, il secondo dalle Commissioni Bilancio di Camera e Senato – è passato pressappoco così: per Draghi la crisi sta per finire ma lascerà in eredità un debito pubblico elevato, sul quale il Governo dovrebbe adoperarsi con riforme strutturali sulla spesa; per Tremonti le entrate tengono, quindi la crisi sta finendo ed il Governo ha fatto le cose giuste.
Il Governatore di Bankitalia, per la verità, ha dato merito all’esecutivo di aver intrapreso la strada giusta, almeno sul fronte delle riforme pensionistiche e nell’ammodernamento della pubblica amministrazione. Il richiamo al federalismo fiscale come riforma cruciale “per rendere più efficace la gestione delle risorse”, poi, pare concordato con Tremonti, che da settimane pone l’enfasi sulla riforma in senso federale della finanza pubblica.
Ciò detto, la lettura dei due interventi fa sorgere una domanda: è stato fatto il possibile, come ha detto il ministro, o si può fare di più, come suggerisce il banchiere centrale? E’ possibile che abbiano ragione entrambi, l’uno affermando ciò che si dovrebbe fare, l’altro difendendo quanto il Governo ha fatto finora: il “possibile”.
Nell’esprimere le sue convinzioni, Draghi ha evidentemente molti più gradi di libertà di Tremonti, le cui parole debbono giocoforza essere una sintesi tra il giusto e l’opportuno. E’ questo il dilemma: inaugurare o no una stagione autenticamente riformatrice nel bel mezzo di una crisi economica e – non si dimentichi – all’indomani dei casi di Noemi e della D’Addario? A ben guardare, la partita si gioca qui: tra chi ritiene comunque opportuno ed auspicabile che il centrodestra, in virtù della schiacciante maggioranza di cui dispone e della sostanziale compattezza della stessa, metta subito mano a riforme “impopolari” e chi, al contrario, sostiene che la congiuntura economica e quella politica consigliano prudenza, per evitare un improvviso calo del consenso nei confronti del Governo e, di conseguenza, un indebolimento dell’azione dei piccoli passi.
Per quanto legittima e politicamente comprensibile, quest’ultima visione delle cose rischia però di contribuire al prolungarsi degli effetti della crisi nel nostro paese. Scommettendo che la recessione internazionale stia per finire, Tremonti si rallegra di aver tenuto a bada gli accesi istinti di spesa. Che l’abbia fatto per scelta o costretto dalla mancanza di margini, a Tremonti non si sarebbe potuto chiedere di più di quanto ha fatto: giocare in difesa, finanziare gli interventi sugli ammortizzatori sociali o sul terremoto abruzzese trasferendo risorse da una posta all’altra, tagliando il tagliabile. Tanto più che, seppure avesse voluto osare di più, l’esempio delle politiche economiche adottate nell’ultimo anno e mezzo nel resto dei paesi occidentali, di stampo soprattutto keynesiano, avrebbe reso ancora meno sostenibile la scelta: come impostare una politica di severa riduzione della spesa, quando negli Stati Uniti e nelle maggiori realtà europee si è scelto di produrre deficit? Memore delle sue personali vicissitudini politiche della scorsa legislatura, Tremonti sa di dover anzitutto evitare l’isolamento a cui troppo spesso è “condannato” il ministro dell’Economia.
Eppure, se la crisi dovesse prolungare i suoi effetti nei mesi, se altre centinaia di migliaia di lavoratori dovessero finire per ingrossare il tasso di disoccupazione (l’ultimo allarme proviene dal CNEL, che ha parlato di 500mila unità a rischio), il consenso politico rischia di sgretolarsi più velocemente di quanto oggi possa apparire e la “prudenza” tremontiana sembrerebbe un’assenza di soluzioni. A quel punto, le scelte ineludibili del “piano Draghi” avrebbero un costo politico ancora più alto di quello attuale.
Non dal solo Tremonti, ma da Berlusconi dall’intero pacchetto di mischia del Pdl dovrebbe partire un rilancio dell’azione governativa. Oggi che il consenso del centrodestra è elevato e che appare evidente l’esigenza di spostare il dibattito politico dalle serate mondane del premier a qualcosa di più concreto, scegliere di “rompere” con gli interessi organizzati (sindacati, singole categorie professionali e produttive, pubblico impiego e così via) potrebbe consolidare, e non minare, la tenuta futura del consenso.
Da questo punto di vista, la stagione congressual-elettorale del Pd rappresenterebbe un’ulteriore opportunità per il Pdl. Mettendo subito in agenda un piano concreto di riforme – non aspettando il 2015 per l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, aprendo il mercato del lavoro, riformando il welfare, agendo sulle liberalizzazioni, riducendo e riqualificando interi pezzi di spesa pubblica – il centrodestra porrebbe le diverse anime del Partito democratico di fronte a lancinanti e fatali dubbi amletici.
Insomma, Draghi ha ragione e Tremonti – pur filosofeggiando un po’ troppo contro il mercatismo – ha fatto tutto ciò che poteva. Ora tocca a Berlusconi: se scegliesse la via delle riforme, da noi impenitenti peccatori l’odore di santità non gli verrebbe negato.