Oziare humanum est, lavorare diabolicum

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Oziare humanum est, lavorare diabolicum

07 Dicembre 2008

L’apologia dell’ozio è un micro-genere letterario dotato di padri illustri (Seneca), prosecutori famosi (Lafargue), ripropositori contemporanei (De Masi, Torno). Una di queste apologie (brevi, appunto per non abbandonare lo stato d’ozio troppo a lungo) è opera di Robert Louis Stevenson. L’autore del Dottor Jackyll e Mister Hyde, dell’Isola del tesoro, del Ragazzo rapito, la scrive nel luglio 1877. Sempre, queste apologie rispecchiano la concezione politica dell’autore, il suo mondo ideale, il suo universo di simpatie e antipatie. Ad esempio, Stevenson (come tutti gli appartenenti a questo micro-genere) non ama affatto il sistema di istruzione così com’è fatto ai suoi tempi, e neppure la norma secondo la quale ragazzi sani e intelligenti devono frequentare la scuola: in una buona società – scrive – l’educazione dei giovani dovrebbe venire dall’esperienza e dalla natura, non da libri polverosi studiati in stanze chiuse. Dovrebbe esaltare una dote che tutti gli uomini possiedono naturalmente, anche se in varia misura: il buon senso. La pigrizia non dovrebbe essere riservata alla vecchiaia, ma esattamente alla giovinezza: “Poiché per un Lord Macaulay che riesce qui e lì a sfuggire agli onori scolastici senza nulla perdere del suo ingegno, la maggior parte dei giovani paga per esso un prezzo così caro da ritrovarsi in seguito senza neanche un colpo in canna, facendo ingresso nel mondo già falliti.” L’autore è perentorio: “Se un ragazzo non è in grado di imparare dalla strada, è perché non ha alcuna capacità di apprendimento.” Questo per quanto riguarda la scuola.

In seguito, il lavoro non dovrebbe occupare tutto lo spazio dell’esistenza né rappresentarne la preoccupazione principale: anche su questo punto i difensori dell’ozio sono concordi. Proprio l’ozio dovrebbe rappresentare l’occupazione prioritaria e privilegiata della vita: la gente dovrebbe poter oziare, ossia, come scrive Stevenson, non “non far nulla, ma fare tanto di quel che i dogmatici formulari della classe dirigente non riconoscono”. Ci sono cose che, quando si è vecchi, è difficile, seccante o impossibile fare: quelle – camminare per i boschi, nuotare nell’acqua, viaggiare, osservare il mondo che ci circonda, conoscere i nostri simili – vanno fatte da giovani. Il tempo che le contiene è il tempo dell’ozio. Il lavoro, la vita “seria” non dovrebbe occupare tutto lo spazio disponibile, ma lasciarne abbastanza per potersi dedicare alle attività davvero essenziali, al sale della vita: all’ozio.

Quali sono le ragioni del favore che l’ozio raccoglie presso scrittori così notevoli? Essi si pongono come difensori di ciò che davvero conta nell’esistenza, e sostengono che solo fuori dal lavoro è possibile attingervi. Pensare, creare, immaginare, gustare a fondo l’arte, la bellezza della natura, la compagnia dei propri simili, fantasticare, giocare, sono occupazioni possibili solo in quello stato vigile e molto attivo, ma al contempo rilassato, che è tipico dell’ozio. L’ozio, quindi, può anche risultare molto occupato e pieno di cose: si differenzia infatti moltissimo dalla noia fino a risultarne quasi l’opposto. Ma si differenzia anche dal lavoro poiché tutte le attività descritte non sono imposte né percepite come un dovere da compiere, o compensate da un guadagno; sono gratuite, volontarie e piacevoli. Tanto che l’attività più simile all’ozio è proprio il gioco.

Anche l’ozio di Bertrand Russell – che scrive l’Elogio dell’ozio, nel 1935 – risponde alla sua concezione della buona società: è buona, a suo parere, quella società che, grazie allo sviluppo tecnologico raggiunto, decide di limitare le ore di lavoro a quattro al giorno, lasciando tutto il resto del tempo libero, liberato dal lavoro, dalla fatica e dalle costrizioni. Solo così quella società riesce a ottemperare alla caratteristica propria di una società davvero buona: essere composta dalla maggiore quantità possibile di individui autonomi, attivi, realizzati, felici. E’ libero non quell’individuo che non ha vincoli di alcun tipo, ma quell’individuo che, assolti i suoi doveri nei confronti della comunità, e sempre rispettando la libertà altrui, ha la possibilità di praticare la libertà di cui dispone dedicandosi ai suoi interessi senza alcuna interferenza.

Innocue fantasie? Speculazioni astratte? Niente affatto. C’è una convinzione seria alla base di tutte queste che possiamo definire anche utopie sul buon vivere: che il lavoro oltre un certo limite sia contrario alla vita, che la creatività si possa sviluppare solo in assenza di costrizioni, di ripetitività, di guadagno, di interesse, di utilità. La vera essenza dell’uomo sembra risieda per i nostri utopisti esclusivamente nel tempo di non-lavoro: solo questo, infatti, appare privo di quei vincoli e quelle caratteristiche negative che connotano invece il lavoro. Un altro obiettivo polemico è il sapere cartaceo, che proviene dai libri e non dall’esperienza, secondo la migliore tradizione empirista.

Queste laudatio risultano così altrettanti trattati politici: pamphlet che colpiscono quello che c’è di storto, di sbagliato, di ingiusto, nella vita a loro contemporanea, e che propongono una riforma sociale e intellettuale. Per Russell si trattava dello schiacciamento degli istinti vitali dell’uomo sotto una coltre di doveri e il pesante sfruttamento dei molti da parte dei pochi: questo era per lui l’unico punto sul quale Marx avesse visto giusto. Per Stevenson si tratta dell’astrattezza e aridità dell’istruzione scolastica, dell’ingabbiamento della personalità, del distacco dalla natura, a causa di una ”operosità” supposta come necessaria.

Tutti questi utopisti parlano del lavoro: gli esempi citati parlano specificamente del lavoro industriale. E’ lo stesso problema della joie au travail affrontato negli anni Venti del Novecento da autori come Henri De Man. Ci si può chiedere quali mutamenti siano introdotti, in questo panorama che possiede alcune invarianze forti dalla Rivoluzione industriale e perfino dall’antichità a oggi, dalla realtà dei lavori “puliti” attuali, senza fatica, senza ripetitività e talvolta anche senza materia; e forse si può rispondere che il problema è spostato, non certo risolto dalla “pulizia” e immaterialità del lavoro di oggi. Solo i creativi (pochi e molto fortunati) hanno la tendenza a dire che il lavoro è una fonte di guadagno ma soprattutto di piacere, soddisfazione personale, gratificazione: tutti gli altri, perlopiù, ne soffrono e basta. D’altra parte, ci si può chiedere se abbia ancora un senso oggi la concezione del lavoro come maledizione biblica.

Siamo pronti a difendere la società industriosa e gli scambi, il valore del lavoro e l’interesse come fonte di pensiero, e nell’utilità non vediamo affatto qualcosa di negativo. Detto tutto questo, come negare che Stevenson abbia almeno un po’ ragione? Come negare che chi loda l’ozio ci induca a vagheggiare soggiorni campestri, attività all’aria aperta, viaggi della mente per ogni dove? Come sarebbe bello, in fondo, poter fare ciò con cui inizia Alice nel paese delle meraviglie: in un caldo pomeriggio d’estate, all’ombra di un albero, partire per un mondo che esiste solo nella nostra mente.   

Un libretto prezioso, dunque, da leggere e meditare, ma non per obbligo o di fretta. Solo in un momento di ozio.

R.L. STEVENSON, Elogio dell’ozio, a cura di F. Venturi, Milano, La Vita Felice, 2008, pp. 59, euro 6,50.