Padoan, la manovra correttiva e la crisi del Pd

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Padoan, la manovra correttiva e la crisi del Pd

03 Marzo 2017

Visitando Google nei giorni scorsi per trovare qualche dettaglio in più sull’ormai imminente manovra correttiva dei conti pubblici da 3,4 miliardi richiesta dall’Ue dopo la letterina inviata dal ministro Padoan alla Commissione europea per chiedere qualche “sconticino” in merito, e dando uno sguardo più attento ai titoli delle notizie e alle dichiarazioni del ministro del Tesoro, non poteva non balzare agli occhi qualcosa di strano: “Padoan: nessuna manovra estemporanea”, “Manovra  correttiva, Padoan: pericolosa per economia italiana” e ancora “Padoan: manovra indispensabile” e, udite udite, “Padoan: manovra priva di rischi”. Cosa succede? Come ha fatto la manovra correttiva a passare da “pericolosa” ad essere addirittura “indispensabile” e “priva di rischi”?

Le dichiarazioni del ministro si riferiscono a momenti differenti. Padoan, dopo il richiamo della Commissione Europea del 17 gennaio scorso in cui si chiedeva all’Italia di varare un piano di rientro dei conti pubblici, dato che questi superano di gran lunga la soglia necessaria per avviare una procedura di infrazione, ha provato a usare il pugno duro con Bruxelles, rispondendo il 1 febbraio con una lettera in cui sosteneva che una manovra aggiuntiva avrebbe creato scompensi all’economia italiana, anche tenendo conto degli “eventi eccezionali” che il Paese ha dovuto affrontare, primo fra tutti il terremoto del Centro Italia.

In effetti le prime due dichiarazioni si riferiscono proprio al 1 febbraio. Ma già il giorno dopo, sondando i rumors di malcontento da Bruxelles per la mancata presa di coscienza italiana della situazione disastrosa dei conti pubblici (“Ci saremmo aspettati una risposta più dettagliata” sarebbe stato il gelido commento ufficioso di fonti interne alla Commissione), il “povero” Padoan ha dovuto fare dietrofront, dichiarando in tutta fretta che la manovra diventava “magicamente” indispensabile. Per poi arrivare al 22 febbraio scorso, il giorno dell’ultimatum ufficiale della Commissione (“manovra entro aprile o procedura di infrazione”), quando ha annunciato che la manovra “si farà” e sarà “priva di rischi”. 

Ora una cosa è certa. Padoan non è certo uno sprovveduto in materia di conti. Sapeva bene sin dall’inizio che, con un debito pubblico aumentato di 45 miliardi rispetto al 2015 (dati Banca d’Italia), una manovra da 0,2% del Pil sarebbe stata richiesta dalla Commissione ed era necessaria per rientrare nei parametri richiesti da Bruxelles. Detto ciò, perché ha intrapreso questo “balletto delle dichiarazioni” passando in un batter d’occhio dal pugno duro ad un immediato dietrofront? Solo per ottenere qualche margine di trattativa in più dal commissario Moscovici e dai “falchi del rigore” interni alla Commissione? Ma questo, tuttavia, era già possibile se si pensa che lo stesso Moscovici ha dichiarato più volte che il suo obiettivo “è evitare procedure, e non aprirle”.   

E allora, cosa c’è dietro l’andirivieni del ministro dell’Economia? Semplice! Ancora una volta, il Pd e la sua crisi interna. È noto che, con le primarie dentro casa e con un clima generale sempre più pre-elettorale, il Pd tutto vuole fare tranne che occuparsi di una manovra aggiuntiva, che comporta nuove tasse e, con ogni probabilità, nuovi scontenti. Per questo, Padoan ha provato a fare lo gnorri con la Commissione finché ha potuto, per provare ad ottenere il massimo della flessibilità o addirittura lo spostamento della manovra. Ma, in virtù delle regole previste, era un’operazione fallita in partenza che gli è valsa l’ira e qualche muso duro dei commissari Ue che, alla fine, hanno fatto tutto quello che potevano concedendo all’Italia una “fiducia a tempo” fino al 30 aprile.

Ma la “coreografia” del balletto e della conseguente figuraccia europea di Padoan è stata diretta ancora una volta da lui: Matteo Renzi. Non è un mistero, infatti, che l’ex segretario del Pd, all’inizio di febbraio, spingesse per andare ad elezioni anticipate a giugno. Il che contemplava la strategia del “pugno duro” con Bruxelles per evitare in tutti i modi la scure del ritocco dei conti pubblici. Per cui, il diktat di Renzi a Padoan suonava più o meno così: “tira fin che puoi, alle elezioni ci penso io!”. Nel caso in cui Gentiloni fosse stato “invitato” a dimettersi, da Bruxelles sarebbero stati costretti a congelare la richiesta di manovra aggiuntiva, passando la palla al futuro governo. Inoltre, in questo modo, l’ex premier avrebbe potuto utilizzare accenti eurocritici con Bruxelles anche in campagna elettorale, come ha fatto altre volte. 

Qualcosa si è inceppato. E, alla fine, sappiamo com’è finita. Il giochino di Renzi si è rotto a causa del suo stesso partito. Le richieste di Congresso anticipato guidate da Emiliano, la scissione interna, hanno costretto l’ex premier a frenare tutto, abbandonando anche la segreteria del partito e lasciando così Padoan a portare avanti una battaglia con l’Ue che ormai non aveva più senso perché il risultato era già scritto.  Dunque, ancora una volta, come per il referendum costituzionale del 4 dicembre e per la modalità di gestione interna del Pd, Renzi è stato messo in scacco dalla sua stessa “prepotenza”, tanto per citare un termine usato dal Guardasigilli Orlando all’annuncio della sua candidatura alla segreteria Pd (“Ho deciso di candidarmi perché credo al fatto che la politica non debba diventare solo prepotenza”).

Anche perché, se proprio voleva fare qualcosa per il Paese e, allo stesso tempo, evitare la tanto indigesta manovra correttiva, l’ex premier avrebbe dovuto impedire che il nostro debito pubblico continuasse a crescere, tanto da arrivare a valere nel 2016, durante il suo governo, il 132,3% del prodotto interno lordo. Proprio per questo, l’Italia rischia ora la procedura di infrazione da parte dell’Ue, che comporta un rigido piano di rientro gestito direttamente da Bruxelles, il blocco dei fondi strutturali e sanzioni salatissime fino a 8,5 miliardi di euro. Padoan lo sa bene. E sa anche che non ci si può più nascondere dietro un dito dando la colpa a Bruxelles.

Dopo la presentazione del Def entro il 10 aprile, la “manovrina” si deve fare inserendo necessariamente un aumento delle accise (ad esempio sulla benzina) e varando un piano di privatizzazioni, nonostante dal Pd remino contro queste due ipotesi che, però, vengono considerate dai tecnici le uniche in grado di far rientrare nei parametri Ue. Per questo, il ministro, dovendo mediare tra Bruxelles e i maldipancia piddini, negli ultimi giorni sembra aver perso il suo classico aplomb: “Resto se siamo nelle condizioni di un mettere in campo un Def coraggioso, capace di accelerare le riforme” avrebbe minacciato in uno sfogo riportato dal quotidiano “La Stampa” seccamemte smentito dal ministro e con esso anche le conseguenti voci di sue possibili dimissioni.    

In ogni caso, smentite a parte, una cosa è certa: l’allarme dalle parti di via XX settembre rimane alto. E in Parlamento non va meglio. Con il nuovo gruppo dei vari Rossi, Speranza & Co. che, nonostante i proclami (“Gentiloni deve temere Renzi, non noi” ha dichiarato più volte Speranza), non hanno ancora chiarito se e come appoggeranno il governo e il Pd, preso dall’acceso dibattito interno in vista delle primarie del 30 aprile. Insomma, i motivi di preoccupazione per Padoan non mancano. Anche perchè il 30 aprile, guarda caso, è anche il termine ultimo fissato dalla Commissione per presentare il piano di rientro. Ecco perché, in un quadro del genere, il varo della nuova manovra in Parlamento entro aprile è sempre più un rebus.