Paese che vai, partiti (e Stato) che trovi. Purtroppo

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Paese che vai, partiti (e Stato) che trovi. Purtroppo

29 Aprile 2012

II. Non ho rimpianti per i partiti del tempo che fu ma l’ipotesi avanzata da un fine scienziato politico come Angelo Panebianco (un amico, un collega ma soprattutto, per me, una guida intellettuale), di partiti sherpa – retrocessi a «organizzazioni  specializzate nella raccolta del consenso elettorale e nella fornitura di personale per cariche di governo senza più la pretesa di dominare le istituzioni» – è sicuramente auspicabile ma non mi sembra molto realistica. E la ragione fondamentale la conosce bene chi fa parte della conventicola ostelliniana dei «quattro gatti liberali»: è difficile pensare a partiti sherpa in una società nella quale l’economia non solo non può contare su larghissimi spazi di autonomia, in cui far valere i suoi codici e la sua etica – che premiano la libera iniziativa, l ‘innovazione’, la capacità di competere sui mercati – ma è divenuta quasi l’ancella della politica, la sua ‘base materiale’ che deve solo fornire risorse per realizzare il ‘bene comune’.

(D’altronde, a prenderli sul serio, gli artt. 41 e 42 della Costituzione, sono inequivocabili: «L’iniziativa economica privata è libera./ Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana./ La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»; «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati./La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Il diritto di proprietà, per i padri costituenti, non precede il pactum societatis e non è indisponibile come il diritto alla libertà e alla vita del trittico lockeano ma viene riconosciuto in virtù della ‘funzione sociale’. Chi debba stabilire quando tale funzione sia presente e operante, resta materia avvolta nel più fitto mistero ma ancora più problematico risulta l’impegno a rendere la proprietà privata «accessibile a tutti». Anche qui, a prendere sul serio il dettato costituzionale, si sarebbe portati a credere, ad es., che tutti dovrebbero venir messi in condizione di comparsi una casa ma, se così fosse, l’Ici sulla prima casa potrebbe  persino configurarsi come misura anticostituzionale…).

Negli anni passati, l’ancella era una giovane e pingue massaia che, nell’epoca  del miracolo economico, era in grado di arricchirsi e di arricchire i padroni; oggi sembra quasi una colf tutta pelleossa alla quale si può chiedere sempre meno. Non siamo più la 7° o l’8° potenza industriale del pianeta e dal sistema produttivo, come dalla classica rapa, non si cava più sangue.
 Si può pensare a ‘partiti leggeri’ quando si debbono eleggere i  supremi responsabili del traffico sociale, incaricati di predisporre cartelli e sensi unici, che evitino ingorghi e incidenti; ma è difficile pensare a ‘partiti leggeri’ quando i governanti debbono anche stabilire quali vetture assegnare, e a chi ,e quali siano le mete che debbono raggiungere le auto che sono state  ridistribuite, in una logica antimercatista, senza tener conto dei ‘diritti individuali’ ma unicamente dell’’interesse collettivo’ (comunque identificato e perseguito).

E’ la posta in gioco istituzionale che determina la natura, la forza, la funzione dei partiti. Se si tratta di eleggere il presidente della Bocciofila di Sesto Calende, si potranno avere opinioni differenti sui possibili candidati alla carica ma gli interessi in gioco sono così esigui che non determinano alcuna divisione e organizzazione separata dei portatori dei diversi pareri in campi avversi. Se, al contrario, la posta in gioco è un governo con ampi poteri di estrazione (attraverso il prelievo fiscale) di risorse dalla società civile e di riassegnazione di quelle risorse a settori e a iniziative considerate di cruciale importanza per la tenuta e la prosperità di un paese, i settori che potrebbero essere avvantaggiati o penalizzati dalle leggi e dalle disposizioni di una  compagine governativa, troveranno nei partiti i sostenitori dei loro interessi e dei loro valori e cercheranno di farli diventare, in Parlamento, prevalenti e ‘maggioritari’.

Anche nel vecchio stato ottocentesco, sopravvissuto in parte nel secolo breve, l’esecutivo ha promosso politiche a favore di certe aree e a svantaggio di altre (ad es. l’agricoltura del Sud sacrificata alle esigenze degli investimenti nelle industrie del Nord) e tali poteri hanno prodotto schieramenti parlamentari più o meno stabili e partiti non tutti  moderni (nell’età giolittiana potevano dirsi moderni solo il partito socialista e quello popolare, gli altri erano confederazioni di diversi gruppi sociali e geografici, tenute insieme dal richiamo all’eredità cavouriana, dalla fedeltà alla dinastia, dal culto dello Statuto) ma allora l’ingerenza dello Stato nella vita dei cittadini era soltanto indiretta. Col riconoscimento dei ‘diritti sociali’ e la loro gestione ‘politica’, che comporta scelte impegnative e, sovente, a somma zero (se si dà agli uni, non si può non togliere agli altri, indipendentemente dalla giustezza dei criteri di redistribuzione), la costituzione di partiti politici che veglino sulla destinazione del ‘prodotto sociale’ diventa una necessità imprescindibile.

Si prenda il caso del diritto ‘sociale’ all’istruzione: esso significa che i giovani non debbono pagarsi la scuola come si pagano l’auto e le vacanze al mare e che la loro  educazione, almeno fino a un certo grado, dev’essere sostenuta dallo Stato (ovvero dai contribuenti che pagano le tasse). Se sul fine dell’istruzione (semi)gratuita, però, si è tutti d’accordo ,ci si divide poi sugli istituti che se ne dovrebbero far carico: c’è chi  la vorrebbe impartita solo nelle scuole pubbliche (come lo scrivente) e chi vorrebbe che il principio della gratuità si estendesse anche alle scuole private: e qui cominciano i conflitti tra i partiti e tra le diverse interpretazioni della laicità e delle competenze dello Stato. Dove c’è qualcuno che distribuisce soldi, c’è qualcun altro che si organizza per assicurarsene la maggiore quantità possibile. Meno lo Stato è appesantito dalle ‘politiche sociali’, minore importanza rivestono le figure istituzionali che ne sono alla guida. Un governo limitato nelle sue competenze accende gli interessi e le passioni dei cittadini molto meno di un governo che, se non può tutto, può sempre ancora tanto.

L’estate scorsa m’è capitato d’incontrare, in California, un simpatico cittadino americano che, dopo aver espresso giudizi pesanti sulla classe politica statunitense e sui due grandi partiti storici in competizione, dichiarò candidamente che non sarebbe andato a votare per nessuno di quei cialtroni. Aggiunse, però, che a rendere tranquilla la sua esistenza era la sicurezza che nessuno dei due candidati alla Casa Bianca, avrebbe potuto attentare alla sua libertà e alla sua proprietà giacché tali diritti erano blindati in una cassetta di sicurezza che non era mai stata a disposizione dei governanti. L’essenza della civic culture nordamericana sta tutta qui ed è da qui che si comprende quel grado di astensionismo elettorale, tipico degli States, che da noi sarebbe inconcepibile e preoccupante. In realtà, quegli americani  si astengono dal voto, possono permetterselo perché, tanto, i loro diritti sono al sicuro, laddove gli italiani (almeno fino a qualche tempo fa) si recavano alle urne in massa proprio perché, a ragione o a torto, non si fidavano di avversari politici che avrebbero potuto manomettere i loro diritti (nello stereotipo classico, i comunisti minacciavano la proprietà e i democristiani le libertà laiche…).

Si ammetterà che un partito politico incaricato di raccogliere voti per un candidato alla Presidenza che, una volta eletto, potrà prendere decisioni in materie sicuramente importanti – e la più importante di tutte è la facoltà di dichiarare la guerra, lo jus belli ac pacis che, nella dottrina dello Stato moderno, definisce la sovranità – ma non può, in alcun modo, alterare la «costituzione economica» del paese, sarà oggettivamente più ‘leggero’ di un partito politico che promette ampie ‘riforme di struttura’: si aderisce al primo o ci si limita a  rispondere ai suoi appelli  in base a considerazioni ‘astratte’ o meglio ‘ideali’,  ispirate a quella che Jean-Jacques Rousseau avrebbe definito la «volontà generale», ci si iscrive al secondo o si fa parte della categoria dei ‘simpatizzanti, in base a corposi interessi di classi e di ceti determinati, che percepiscono il partito come una testa d’ariete in grado di sfondare la fortezza del privilegio sociale.

Insomma allo ‘stato limitato’ humboldtiano corrisponde il partito-sherpa, allo stato tentacolare corrisponde il vecchio partito europeo, assai spesso un vero e proprio «stato nello Stato».
«Ma non vedi, mi si può obiettare, che i partiti sono un’ombra di quel che erano mezzo secolo fa e che, nella coscienza collettiva, hanno perso ogni credibilità, travolti dagli scandali e dalle prove fatte di malgoverno?». Non nascondiamoci dietro un dito, i partiti hanno minore presa sulla società perché l’albero sociale, nel frattempo, si è rinsecchito ma il loro potere è riuscito persino a rafforzarsi: i loro capi sono colonnelli di reggimenti dimezzati e malconci ma, nell’ambito in cui si esercita, la loro autorità rimane quasi intatta.

Con l’aggravante, però, che mentre ‘ai tempi lì d’allora’ erano le sezioni e le federazioni, nelle quali si svolgevano frequenti e appassionati dibattiti, a eleggere le gerarchie di partito – dal segretario di sezione a quello di Federazione–, oggi si ha l’impressione che, a nominare i vertici, siano ristrette oligarchie  così poco popolari all’esterno da non avere il coraggio di proporre  propri uomini alla carica di sindaco e per questo così disposte ad affidare le scelte alle ‘primarie’ e alla (pretesa) legittimazione democratica di cui sarebbero espressione. Come accade spesso nel nostro paese, si cerca di rimediare a una malattia scimmiottando istituzioni, come in questo caso le primarie, che sono sorte e hanno una loro giustificazione in sistemi politici (nel bene e nel male) lontanissimi dai nostri.

Per i politici post-marxisti, che sotto il consolato di Palmiro Togliatti potevano avere i paraocchi ideologici e indulgere alla faziosità ma difficilmente perdevano quel robusto senso della realtà acquisito dalla frequentazione dei testi classici del materialismo storico, i risultati dell’imitazione dei nemici di una volta (i perfidi capitalisti yankee)  non potevano essere più catastrofici. Le primarie, infatti, quasi dovunque – Torino e Bologna sono  le eccezioni che confermano la regola – hanno dato il colpo di grazia all’anima ‘socialdemocratica’ del PD e conferito alla sinistra unita il volto dell’antagonismo vendoliano, una mistura di buonismo, terzomondismo, anticapitalismo, antioccidentalismo etc.

Saranno questi partiti, che non hanno mollato nemmeno  un milligrammo della loro pressione sulla società civile (ormai impoverita) e, come si è fatto rilevare, non si fidano più ‘a metterci la faccia’ e non osano candidare alle cariche pubbliche dirigenti e membri autorevoli della società civile ma rigorosamente scelti dalle sezioni e dalle federazioni, in seguito a dibattiti reali e non rituali, a promuovere «il contestuale rafforzamento dell’autonomia e dei poteri decisionali attribuiti alle istituzioni di governo»?

In realtà, con questi partiti non si va molto avanti sulla via auspicata da Panebianco (che non è detto poi che sia la via maestra per farci uscire dalla crisi). Una democrazia che  ragionasse in termini di rassegnato pseudorealismo: «questi qui ce li dobbiamo tenere perché altrimenti sarebbe il diluvio», sarebbe veramente una ‘democrazia bloccata’ ; per sbloccarla, bisognerebbe invece che «questi qui» togliessero il disturbo – e al più presto – e che finalmente, entrassero nella ‘stanza dei bottoni’ homines novi indifferenti alle vecchie logiche di potere e legittimati dal voto popolare di chi«non ne può più» e magari si serve della (demonizzata) antipolitica per fondare su nuove basi il ‘contratto sociale’. Su basi più eque e meno vessatorie nei confronti di cittadini che non saranno stinchi di santo – e, quando possono farlo impunemente, ‘evadono’ volentieri.– ma neppure accettano di raggiungere anzitempo il regno dei più, magari cantando «chi per il fisco muor, vissuto è assai!».