Pakistan, i servizi segreti dietro l’attentato a Benazir Bhutto
19 Ottobre 2007
L’orrore dell’attentato di Karachi con i suoi 139
morti, si accompagna a un elemento
inquietante. La potenziale vittima, Benazir Bhutto, per bocca del marito, ha
infatti subito attribuito la responsabilità della strage non ai terroristi
islamici, ma ai servizi segreti pakistani (la testa del kamikaze è stata
individuata ed è ora sottoposta all’esame del Dna). L’elemento inquietante è che questa
incredibile tesi ha delle solide pezze d’appoggio.
Ieri, pochi minuti dopo l’attentato, intervistato
dalla televisione Ary One, Asif Ali Zardari, marito della Bhutto, ha lanciato
parole dure come pietre: “Noi accusiamo l’Isi (Inter-Service
Intelligence, ndr) di Karachi ed
esigiamo un’azione immediata nei suoi confronti. Questo attentato non è stato
portato a termine da combattenti islamici, ma da questa agenzia di spionaggio”.
Per aumentare ancora il peso devastante delle sue dichiarazioni, il marito
della futura premier ha fatto in seguito specificare dal suo ufficio stampa che
l’accusa andava riferita al generale in congedo Ijaz Shah, direttore dei
servizi segreti pakistani, stretto collaboratore del presidente Pervez
Musharraf che ne è il titolare politico. Oggi, la stessa Benazir Bhutto ha
voluto confermare e dare ancora maggior peso a questa inquietante denuncia di
paternità politica della strage: “So esattamente chi ha cercato di uccidermi.
Sono funzionari dell’ex regime del generale Zia, che oggi sono dietro
estremismo e fanatismo”.
Per afferrare bene il senso
profondo di questo sanguinoso intrico pakistano, è dunque indispensabile andare
alla triste alba del 4 aprile 1979, nel cortile del carcere di Rawalpindi, nel
momento in cui Alì Bhutto, padre di Benazir, ex presidente e poi premier del
Pakistan, salì sulla forca. Il boia gli spalancò la botola sotto i piedi agli
ordini diretti del generale Zia ul Haq, che aveva deposto Bhutto nel 1977 con
un golpe. Il punto è che tutti, assolutamente tutti i generali dell’esercito
pakistano di oggi, a iniziare dal comandante in capo, Pervez Musharraf, fanno
parte della “nidiata” di Zia ul Haq, tutta la casta militare pakistana odierna è
stata plasmata e formata da lui (morì in un attentato il 17 agosto 1988). Ma
Zia ul Haq non era il solito generale golpista del terzo mondo: era un
fondamentalista musulmano che sommava ad una modernissima educazione militare
di tipo occidentale (sotto la sua presidenza il Pakistan fece esplodere la sua
prima bomba atomica) una radicata coscienza fondamentalista. Durante il suo
governo Zia ul Haq, fiancheggiato da una casta di giovani militari emergenti
(tra cui Musharraf), impose al Pakistan una serie di riforme ultraintegraliste,
il cui simbolo è la Legge
contro la Blasfemia,
che condanna a morte chiunque offenda il profeta e il Corano (l’affermazione
pubblica “Cristo è figlio di Dio” è passibile di pena capitale e alcune
condanne a morte in questo senso sono state pronunciate). Ispiratore di Zia ul
Haq fu Abu Ala al Mawdudi, il “Khomeini sunnita” uno dei più radicali e noti
teologi dell’ultrafondamentalismo del novecento.
Se non si ha presente questo
quadro (e l’irresponsabile, incredibile sottovalutazione dei suoi pericoli da
parte di tutte le amministrazioni americane, da Carter sino George W. Bush) non
si comprende nulla del fenomeno dei Talebani che furono appunto una proiezione dei generali fondamentalisti
pakistani in Afghanistan, nel dichiarato disegno di rafforzare la zone
d’influenza regionale di islamabad. Questa profonda compromissione di tutta la
casta militare pakistana con l’ultrafondamentalismo è anche necessaria a
comprendere come mai Osama Bin
Laden non sia stato mai catturato e come mai la “svolta” di Musharraf a partire
dal 12 settembre 2001, non abbia portato a nessun effetto, se non la ulteriore
lacerazione del paese.
Musharraf era andato al
potere nel 1999 con un golpe ,
detronizzando Nawaz Sharif -uno dei pochi premier eletti in consultazioni quasi
regolari – proprio perché questi aveva intenzione di togliergli il comando
delle forze armate dopo che aveva scatenato una quasi guerra con l’India in
Kashmir, impegnando l’esercito pakistano a fianco dei militanti di al Qaida.
Preso il potere, Musharraf sostituì per prima cosa il capo dell’Isi Khawaja
Ziauddin (che avrebbe dovuto sostituirlo a capo delle forze armate, secondo il
volere di Sharif) con il generale Ahmed Mahmood. Questi, continuò in pieno la
politica che era stata di Musharraf, di pieno appoggio al “satellite talebano”,
ma esagerò, come purtroppo si constatò l’11 settembre 2001. Il 12 settembre – ricevuti
sostanziosi fondi personali da Washington – Musharraf fece una svolta di 180
gradi, licenziò bruscamente Mahmood e impegnò “toto corde” il Pakistan in
Enduring Freedom. Ma – il fatto è fondamentale – non ebbe affatto la forza di eliminare
dalla scena politica – e men che meno dai quadri dirigenti delle forze armate –
l’influenza determinante dei generali fondamentalisti, suoi ex compagni di
cordata e di ideologia che gestiscono tuttora – come soci di minoranza, si
potrebbe dire – sia le forze armate, che il Pakistan.
Per spiegare quanta e quale
sia l’influenza del blocco di generali fondamentalisti, si pensi che Bernard
Henry Levy, dopo avere indagato sullo sgozzamento nel gennaio del 2002 del
giornalista del Wall Street Journal Daniel Pearl, giunse alla conclusione – denunciata
in mille interviste – che il suo assassino Omar Sheikh, fosse un agente
dell’Isi e che il generale Mehmood fosse tra i mandanti dell’uccisione del
giornalista, colpevole di avere appunto scoperto gli intrecci tra l’Isi e la
rete di al Qaida.
Tutta la storia del Pakistan
tra il 2001 e oggi è dunque dominata da questa ambiguità, che ha favorito il
radicamento sempre più esteso nel corpo sociale del paese, non solo
dell’attività dei terroristi (migliaia sono le vittime ogni anno, spesso
cristiani o sciiti, sterminati per ragioni religiose), ma anche e soprattutto
del consenso politico verso il fondamentalismo. Esemplare la vicenda della
Moschea Rossa di Islamabad, che sorge a due isolati di distanza dalla sede
centrale dell’Isi, che è diventata un fondamentale punto di riferimento
politico – prima che militare – per i Talebani pakistani e che è stata
espugnata solo con una battaglia che ha fatto un centinaio di vittime, con un
esito politico disastroso per Musharraf, perché quella mossa ha innescato una
reazione a catena in tutto il paese di cui hanno fatto le spese i suoi soldati
(molte centinaia uccisi nelle ultime settimane nel Waziristan, le Zone Tribali
che ospitano Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri).
In conclusione – e qui si
torna alle denunce di Benazir Bhutto e di suo marito – il Pakistan è l’unico
paese al mondo in cui vi sia un ampio movimento fondamentalista, con le sue
propaggini terroriste, indissolubilmente intricato con una parte dei servizi
segreti e della stessa èlite militare che controlla il potere politico. Il
“condominio” tra Musharraf e i suoi ex colleghi militari fondamentalisti si è
dunque rivelato una fonte crescente di destabilizzazione del paese (che
peraltro, a causa della sua cultura islamica non ha dato vita al travolgente
sviluppo economico della vicina India “laica”, pur avendo identiche premesse)
che obbliga ora Musharraf a chiedere aiuto alla figlia dell’uomo a cui il suo
padrino politico, Zia ul Haq, mise il cappio al collo.
Benazir Bhutto, rappresenta
le grandi famiglie del Sind, è una nazionalista, filoccidentale, ma senza
grandi disegni o strategie, se non una generica vocazione alla modernizzazione
(ed è probabilmente colpevole degli episodi di corruzione di cui lei e il
marito sono stati accusati). Conosce bene il ruolo determinante dell’Isi e dei suoi
generali fondamentalisti – che le hanno ucciso anche il fratello, in un
attentato – e ora torna in patri più sull’onda delle pressioni americane, che
della volontà popolare. Il disegno di Washington è oggi quello di supportare la
palese debolezza crescente di Musharraf, con la linfa nuova dell’appoggio del
settore più moderno e laico del paese.
Scommessa azzardata, tutta
manovriera, di vertice. Soprattutto scommessa tardiva. Se l’amministrazione
americana avesse finalmente iniziato a comprendere qualcosa del Pakistan già
nel 2001, avrebbe dovuto immediatamente imporre a Musharraf l’alleanza con la Bhutto. Invece, Bush ha firmato
un assegno in bianco al dittatore di Islamabad che ha più e più volte
rinnovato, sino a quando, pochi mesi fa, si è reso conto che la vera ragione
delle secche in cui è finita Enduring Freedom in Afghanistan, avevano e hanno
la loro radice politica proprio nel caos fondamentalista pakistano. Da qui il tentativo di favorire una svolta
“riformista”. Probabilmente troppo tardi. Molti analisti scommettono infatti su
una implosione violenta del Pakistan, di qui a non molto.