Pakistan, l’Islam politico è fallito e il Paese deve tornare al passato laico

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Pakistan, l’Islam politico è fallito e il Paese deve tornare al passato laico

29 Maggio 2009

 

Il dramma della valle di Swat – il suo cinico abbandono alla mercé dei talebani, il terrore esercitato su di essa dai miliziani, quindi la constatazione che quella concessione alle forze delle tenebre non ha funzionato – è un episodio emblematico della più vasta storia dell’estremismo religioso nel mondo islamico. Il presidente pakistano Asif Ali Zardari è stato l’ultimo di una lunga lista di secolaristi a scendere a patti con gli zeloti, solo per scoprire che per coloro che credono in un Islam politico questi accordi non sono che un intermezzo per riprendere fiato prima che venga ripresa la lotta per la loro utopia.

La decisione del Pakistan di riprendersi quei territori è arrivata anche troppo tardi. Non dobbiamo sottovalutare la forza dello stato pakistano, e del consenso che lo sostiene. L’esercito è un’istituzione assai solida, e la sua tradizione è simile a quella delle forze armate turche, che si considerano le guardiane della secolarità della nazione.

Il posto dell’Islam nella cultura politica del paese non è mai stato facile da definire. Non sono stati sentimenti di pietà religiosa a portare alla nascita del Pakistan. I capi che decisero di separarsi dall’India erano degli uomini moderni, consapevoli del mondo che li circondava, che non potevano sopportare la subalternità politica al grande stato induista. I musulmani avevano perso la gara verso la modernità, e il Pakistan costituì il loro premio di consolazione, e il loro rifugio.

Muhammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, fu sempre un uomo secolare. I pilastri delle sue concezioni politiche poggiavano sulle leggi britanniche e sul nazionalismo indiano. Entrambi questi fattori lo ispirarono nella creazione del nuovo stato, che divenne realtà nel 1947, quando Jinnah era ormai vecchio e malato. Sarebbe morto l’anno seguente. Fu sempre sincero nella sua convinzione che il Pakistan avrebbe potuto tenere a bada la religione.

Lo stato voluto da Jinnah  resistette per trent’anni. Fu soltanto nel 1970 che l’Islam politico iniziò l’assalto alle sue istituzioni secolari. Un dittatore militare, Zia ul-Haq, conquistò il potere nel 1977; avrebbe mandato il suo predecessore, il brillante populista Zulfikar Ali Bhutto, alla forca. Fu Zia a ristrutturare la cultura politica della nazione. Durante i dieci anni del suo regime si assistette a un proliferare delle "madrasse": nel 1947 esistevano nel paese non più di 250 di queste scuole religiose, nel 1988 erano arrivate ad almeno 12 mila.

Zia fu terribilmente efficace nel manipolare la jihad come strumento di resistenza all’Unione sovietica in Afghanistan. Il suo paese venne inondato di armi saudite e denaro americano. Si ingegnò a mascherare il suo dispotismo sotto una patina di garbo islamico. Preparò il terreno per l’arrivo dei mullah, e i mullah gli portarono i combattenti.

Si dica quel che si vuole del Pakistan, resta il fatto che il suo popolo non ha mai votato per le tenebre calate su Swat e dintorni. Nelle elezioni nazionali del 2008 hanno dominato i partiti secolari e regionali, i fondamentalisti sono stati sbaragliati. La concessione di Swat è stato un regalo che gli estremisti non hanno meritato.

I religiosi e i miliziani che hanno portato il regno del terrore in quella valle non fecero mistero di quello che volevano. Sufi Mohamed, il mullah che strinse l’accordo in rappresentanza delle milizie, fu chiarissimo circa le sue mire. Lui, e i suoi uomini armati, avrebbero definito le vera natura della fede. Avrebbero separato gli autentici musulmani dagli "apostati". Avrebbero sostituito il sistema legale vigente con la legge della Sharia. Avrebbero ristretto l’accesso ai luoghi pubblici delle donne.Avrebbero fatto apertamente guerra alla democrazia, perché è un’invenzione senza Dio in conflitto con l’Islam. La conquista di Swat sarebbe stata un messaggio alla popolazione: il mandato dello stato pakistano, il suo monopolio su legge e ordine, era stato infranto. Era iniziata la battaglia che avrebbe messo in pericolo la stessa legittimità istituzionale delle forze armate pakistane.

Negli anni Ottanta il Pakistan portava in Afghanistan, e all’ultima battaglia della Guerra Fredda. Adesso la lotta in Afghanistan riporta al Pakistan, e alla battaglia per la modernità dell’islamismo. La posta in Pakistan, per gli Stati Uniti, è vitale. La sua popolazione è almeno sei volte quella dell’Afghanistan. In Afghanistan, il problema dei talebani è di carattere tribale. La loro religione li rende oggetto del risentimento e delle ambizioni pashtun. L’Afghanistan è relativamente estraneo alle dottrine islamiche che hanno infiammato il Medio oriente e il subcontinente indiano per decenni.

L’America non si è mai impegnata troppo in questa regione. L’Asia meridionale non è stata mai un luogo dove abbia agito il braccio imperiale statunitense. Ci limitammo semplicemente a prendere nota del Pakistan quando l’Islam politico iniziò la sua marcia in quel paese, perché pensavamo, allora, che la religiosità reazionaria potesse essere gestita e contenuta.

Adesso abbiamo un nuovo presidente, ma ancora non riusciamo a immaginarci come sarà la prossima missione Usa in Pakistan. I democratici hanno avuto un approccio alquanto semplice con quell’argomento: è stato sbagliato, hanno detto e ripetuto, sostenere la dittatura del generale Pervez Musharraf, perché si è preso tutti i tesori che gli abbiamo dato ma non ha reciso i legami che esistono tra i suoi servizi segreti e gli estremisti religiosi del suo paese e dell’Afghanistan. Adesso il generale Musharraf non c’è più, ma non è arrivata alcuna redenzione.

Barack Obama ha promesso che avrebbe avviato un’intensa attività diplomatica per appianare la cronica disputa indo-pakistana sul Kashmir. Ma, comunque si voglia girare la questione, resta il fatto che il peso e la potenza dell’India precludono un approccio deciso sulla questione. Nessun governo a Nuova Delhi approverebbe un cambiamento dello status del Kashmir.

La verità è che gli Stati Uniti non possono alterare il rapporto di potenza che esiste tra India e Pakistan. E’ da sessant’anni, ormai, che il Pakistan vive all’ombra dei successi del suo grande vicino, un fatto che ha tormentato il paese, esacerbandone il radicalismo in politica. L’ossessione di quella mancata spartizione (il Kashmir) è stata un fattore non trascurabile nella deriva del Pakistan verso l’estremismo politico e religioso. La scelta di fronte al Pakistan può essere così esemplificata: o il primato della questione Kashmir, oppure il risanamento della nazione, il rinnovamento delle sue istituzioni, il compito urgente di porre in opera un sistema educativo che sottragga influenza all’estremismo religioso.

Nel suo desiderio di essere l’anti-Bush, Obama sembra intenzionato a portare avanti la guerra nel "teatro AfPak" senza nobilitarla neanche di un nome o di una chiamata alle armi. Non vedremo questa lotta attraverso la lenti di una "lunga guerra" contro il jihadismo e l’islamismo, perché ciò renderebbe giustizia alla visione del mondo di George W. Bush successiva all’11 settembre. Tanto più che quella guerra l’abbiamo dichiarata finita, il che è senz’altro una grossa esagerazione.

Visti la pratica e gli ammonimenti dell’amministrazione Obama, non vedremo il percorso ideologico che parte dal Medio oriente e arriva all’Asia meridionale, che ha messo in così grave pericolo l’Islam e la sua fragile modernità. La nostra è una campagna invisibile. Noi vogliamo "indebolire, smantellare e sconfiggere" al Qaeda, negargli la possibilità di farci del male. In Afghanistan, e nella fascia pashtun in Pakistan, vogliamo separare i talebani "riconciliabili" da al Qaeda e dalle forze della jihad globale. Ma quanto alla gente, manterremo le distanze. Non ci lasceremo coinvolgere nei loro affari nella maniera in cui George W. Bush si impegnò nella riforme e nella libertà del grande Medio oriente.

Obama, è noto, è un eccellente comunicatore; proprio per questo è ancor più sconcertante la sua reticenza circa quello che è in gioco in questa lotta. L’ideologia "è talmente superata", ha dichiarato recentemente il segretario di Stato, Hillary Clinton, raccontandoci a suo modo interi volumi della nostra passata attività diplomatica. Così anche Obama: è stato due giorni in Turchia – piuttosto critica verso di noi negli ultimi dieci anni, nei quali è stata fonte di alcune tra le più maligne fantasie antiamericane – e quattro ore a Camp Victory.

Sotto Obama non abbracceremo gli iracheni, né celebreremo la vittoria che abbiamo ottenuto o il positivo esempio democratico che abbiamo instaurato in un territorio tanto ostile. Allo stesso modo dovremo "rifare il Pakistan": clinicamente, senza dare un nome ai pericoli che quel paese dovrà affrontare e senza ricordare quel luminoso precedente al quale, forse, dovremmo richiamarci.

Gli americani sono gente pragmatica, hanno fatto decisamente meglio quando sono stati chiamati a grandi imprese. Non è abbastanza portare in quelle contesissime lande asiatiche il sangue freddo dei cosiddetti realisti in politica estera.

 

Fouad Ajami è professore al centro di studi mediorientali della Johns Hopkins University – School of Advanced International Studies, e adjunct senior fellow" presso la Stanford University’s Hoover Institution.

Tratto da Wall Street Journal

Traduzione di Enrico De Simone