Pakistan, mezzo milione di profughi e l’esercito lancia l’offensiva ai Talebani
11 Maggio 2009
Negli ultimi giorni il governo pakistano ha scatenato un’offensiva contro i Talebani per riprendere il controllo della provincia dello Swat. Sono circa 200 i combattenti nemici uccisi. Si parla di un esodo biblico della popolazione, oltre mezzo milione di profughi. Ieri ci sono state manifestazioni a Kabul con centinaia di studenti delle madrase che hanno inneggiato slogan come “Morte all’America!”.
Coincidenza non poteva essere peggiore. Mentre si tenevano gli incontri dal tenore non certo conciliante tra Obama e i presidenti afghano e pakistano, Hamid Karzai e Asif Ali Zardai, morivano sotto le bombe americane ben un centinaio di civili. Dopo aver iniziato i colloqui rimproverando ai due leader “alleati” la scarsa collaborazione, Obama si è dovuto scusare per l’errore non lieve commesso dall’aviazione statunitense.
Il fatto è che nelle guerre di contro insorgenza moderne la messa in sicurezza della popolazione civile è il centro della strategia: è stato così in Iraq con la surge e il copione, mutatis mutandi, deve essere lo stesso in Afghanistan, anche per l’impegno solenne intrapreso dal nuovo presidente in campagna elettorale di riprendere lo scopo principale della lotta al terrorismo, la sconfitta di Al Qaida, dopo la “distrazione” irachena di Bush.
Ma la situazione in Afghanistan non è semplice; a complicare le cose, vi è un vicino instabile, sull’orlo del fallimento istituzionale e civile come il nucleare e corrotto Pakistan, talmente incerto da finanziare i Talebani in funzione anti indiana. Lo stratega consigliere di Petraeus, David Kilcullen, durante un’audizione davanti ad una commissione delle forze armate USA, dichiarava pochi giorni fa che dal 2001 gli Stati Uniti hanno finanziato attività in Pakistan per 10 miliardi di dollari, di cui tra gli 80 ed i 120 milioni al mese per sostenere le operazioni anti guerriglia in Afghanistan. E i risultati non si vedono: oltre all’accennato stato cronico di corruzione di tutto l’apparato statale, vi è la collusione manifesta tra servizi segreti, guardie di frontiera e Talebani, pakistani, che ha portato il debolissimo governo di Islamabad ai famigerati accordi in cui cedeva la sovranità di ampie zone del nord agli stessi fondamentalisti che, forti delle vittorie ottenute, hanno iniziato a sciamare a sud, fuori della loro area, e a minacciare la stessa capitale.
In pratica, gli insorgenti hanno compiuto un errore simile a quello commesso da Al Qaida nelle terre a maggioranza sunnita in Iraq, quando iniziò a minacciare la vita di quelli che dovevano essere i suoi protetti, i clan fedeli una volta a Saddam. Anche in Pakistan i Talebani, invece di accontentarsi di governare nelle zone al confine con l’Afghanistan nel regno delle tribù Pashuntun, hanno voluto compiere il salto portando l’attacco al “cuore dello stato”, minacciando i suoi protettori e mettendo in pericolo la vita non degli afghani o degli indiani, ma quella dei loro concittadini.
E’ presto per dire se adesso essi sono diventati un ospite un po’ troppo invadente anche per i loro sponsor pakistani, se si arriverà ad una nuova tregua o ad uno scontro frontale tra esercito e guerriglieri. Quello che è certo a tutti gli osservatori è che gli Stati Uniti, come in Iraq, sono costretti ad agire, che non è possibile nessun disimpegno soft, nessun accordo fino a quando i due paesi sono sotto la minaccia dei fondamentalisti e forse questa prova di forza è il segno che per tutti i contendenti la situazione è insostenibile. Ancora (fino a quando?) sembra possibile una distinzione tra talebani “buoni” e “cattivi”, tra guerriglia accidentale e insorgenza manifesta e tra talebani ed il nemico mortale, Al Qaida.
Nel corso del tempo, gli americani hanno imparato, e a che prezzo, che è difficile trovare interlocutori fedeli e forti allo stesso tempo: non hanno queste caratteristiche né il debole Karzai, scelto proprio per questa caratteristica di non disporre di nessuna milizia, né il presidente pakistano. L’unica alternativa è rappresentata dal rafforzamento delle istituzioni di quei due paesi, della polizia e dell’esercito, mettendo sotto pressione i governi in carica, facendo capire che i loro destini politici dipendono dall’aiuto degli Stati Uniti che sono anche pronti, se nel caso (magari ce ne fosse), a cambiare alleato come hanno iniziato a fare in Pakistan trattando con le opposizioni a Asif Ali Zardari.