Palamara e il Manifesto sono l’esempio di un paese allergico alle forme
12 Febbraio 2012
E’ constatazione malinconica che in Italia non c’è governo, non c’è maggioranza parlamentare, non c’è partito politico che non sia tentato e indotto a non tener conto delle leggi ordinarie e delle norme costituzionali. Il ‘culto delle forme’ che definisce la natura della civiltà liberale non ci appartiene, a differenza, invece, dell’attenzione alle ‘formalità in cui siamo maestri. Da secoli siamo abituati a ritenere importante la ‘sostanza’ delle cose e a considerare le forme come una risorsa che si pone al servizio della buona causa – e quindi da far valere – o come un impaccio, che impedisce di ‘far giustizia’ – e quindi da rimuovere.
Persino i giudici della Corte Costituzionale non tengono conto dell’art. 135 che detta: «il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice». Alla domanda rivoltagli da un giornalista, un magistrato della Consulta ha candidamente fatto rilevare che «la prassi costituzionale da tempo non tiene conto di quella norma» e che, quindi, è lecito eleggere un presidente che durerà in carica meno di un anno. E’ come dire che gli uffici postali debbono essere aperti anche il sabato mattina ma che la ‘prassi post-telegrafonica’ ormai ne consente la chiusura fin dal venerdì pomeriggio. Gli usi e costumi che svuotano le leggi, in altri paesi occidentali, sono giustificati dall’interesse pubblico: da noi vengono incontro agli interessi delle categorie che, spesso, da interessi legittimi si convertono in veri e propri privilegi. E’ il caso dei barbieri che chiudevano i loro negozi il lunedì giacché li tenevano aperti la domenica – il giorno del relax e dei maschi adulti che, prima della Messa, si sistemavano barba e capelli – ma che hanno continuato a starsene a casa il lunedì anche dopo aver ottenuto la chiusura domenicale.
Va detto, però, che il ‘sostanzialismo etico’ non caratterizza solo la classe politica ma altresì l’ordine giudiziario, gli ordini professionali e, infine, la società civile in senso lato. Luca Palamara, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, ha dichiarato a Radio 24 che le leggi e le riforme che riguardano i giudici debbono essere affidati ad essi. Non si può pensare a una riforma della Magistratura se non come autoriforma. Il democraticissimo Palamara ha usato gli argomenti ‘forti’ dei più spietati critici della democrazia rappresentativa: non si pretenderà mica che siano i governi, sempre di parte, o i parlamenti, soggetti agli umori incostanti dell’opinione pubblica, a stabilire quali siano i doveri, i poteri, le competenze dei magistrati? Nutrito di studi classici, il Presidente ha espresso la saggezza antica dei Platone, dei de Maistre, dei Comte ma forse ha dimenticato che, da qualche secolo, almeno negli Stati contaminati dalla cattiva ‘modernità’, le leggi le fa il Parlamento, certo nel rispetto dei principi costituzionali (ci mancherebbe altro!) ma senza essere obbligato a interpellare soloni che non siano stati eletti e che non siedano tra i suoi banchi. Può dispiacere davvero che si sia arrivati a tanto, che si debba assistere al trionfo del "demos" e che non si riservi alcun potere di veto a Palamara e ai suoi colleghi, fortemente contrari alle nuove leggi che li riguardano (e che non hanno fatto loro), ma ci si può consolare pensando che quel potere non è stato riconosciuto neppure alle alte gerarchie dell’esercito e ai senati accademici. Tra i guasti della democrazia rappresentativa, purtroppo, va annoverata la fine delle corporazioni, di quelle buone vecchie corporazioni che non consentivano ai sovrani di eliminare neppure un’oncia dei loro privilegi ovvero dei loro ‘diritti storici’. Bei tempi, caro Palamara, ma purtroppo, per dirla con l’immortal Principe De Curtis – nel film di Mauro Bolognini del 1959–: «quei tempi sono finiti, arrangiatevi!».
Un altro caso emblematico di ‘sostanzialismo etico’ è la risposta data da Marcello Sorgi, conduttore del programma radiofonico ‘Prima pagina’, a un ascoltatore che si chiedeva, con qualche ragione, perché un quotidiano come ‘Il Manifesto’ (ma anche altri) dovesse venir mantenuto dallo Stato ovvero con le tasse dei contribuenti (anche di quelli lontani anni luce dai valori del ‘Manifesto’). Il giornalista ed ex direttore della ‘Stampa’ ha replicato che l’aver ridotto del 90% il sostegno pubblico al quotidiano di Valentino Parlato è qualcosa di iniquo e di inaccettabile. Lo Stato, ha detto, finanzia molte iniziative culturali in passivo, ad esempio i teatri e gli enti lirici: perché non dovrebbe accollarsi il passivo del ‘Manifesto’? Forse c’è una piccola differenza sfuggita a Sorgi: teatri ed enti lirici svolgono servizi culturali au dessus de la melée, non sono né di destra, né di sinistra (almeno in teoria), non prendono parte ai conflitti sociali e politici (sempre in teoria) e, in questo non si distinguono affatto dalle scuole, dalle Università, dalle Accademie, dai Conservatori – che godono (o hanno goduto), com’è noto, di laute sovvenzioni.
Personalmente, se fossi al governo, non darei alcun contributo a quanti «non ce la fanno ad andare avanti», per mancanza di lettori o di spettatori o di studenti, ma voglio mettermi nell’ottica di quanti opinano il contrario e far buon viso a cattivo gioco per le sovvenzioni sia agli enti culturali sia alle redazioni in passivo (non è liberale ma non è neppure incostituzionale). Diamo pure a tutti ma, a questo punto, la legge deve valere per tutti ed è vietato barare quelle benedette forme che fanno la distinzione tra la società aperta e la comunità chiusa. Intendo dire che, fissando un tetto, ad esempio, di 10mila lettori, tutti i quotidiani che vendano questo numero di copie potrebbero chiedere il generoso intervento pubblico.
Sennonché qui scatta il ‘sostanzialismo etico’, iscritto nell’anima nazionale: ma come? si vuole mettere il giornale di Luigi Pintor, di Rossana Rossanda, di Lucio Magri sullo stesso piano di un foglio provinciale qualsiasi e magari di un giornale diretto da Francesco Storace o da Clemente Mastella? Eh, no, c’è una sostanza morale e culturale che non può essere misconosciuta. Il ‘Manifesto’ gode di un prestigio che non può essere azzerato dal rullo compressore delle cifre: la quantità non può azzerare la ‘qualità’.
E se non si fosse d’accordo sul prestigio e sul resto? Se si ritenesse, invece, che ‘Il Manifesto’’ – quasi unico quotidiano «comunista» sopravvissuto in Occidente – è un periodico ideologico, di parte, diseducativo (ai sensi di una paidèia moderna e liberale), una cloaca a stampa che raccoglie tutti i cascami accademici della contestazione, tutti i fascisti dell’antifascismo, tutti i detriti del 68, tutte le tossine immarcescibili dell’anticapitalismo e dell’antimercato? Se si ritenesse che, mutati i segni dell’impegno etico-politico, nulla lo differenzia dai suoi pendant di destra, ad es., dal giornale dell’Uomo Qualunque di un redivivo Guglielmo Giannini? Sicuramente si incorrerebbe, in tal caso, nell’ira funesta di Sorgi : «ma come si fa a negare la serietà del Manifesto?», «ma come si fa a metterlo sullo stesso piano del foglio qualunquista?». Insomma le leggi, per i benpensanti della sinistra odierna (quella vecchia era altra e più seria cosa), non possono essere ‘astratte’, non possono rivolgersi a tutti indistintamente, non possono limitarsi a contare le teste, astenendosi dal pesarle (per il motivo che non esistono bilance oggettive e infallibili). Sarebbe il summum jus, summa injuria!
In definitiva, la democrazia, in questo stile di pensiero, è una cosa buona ma va corretta, altrimenti si è costretti a dire che diecimila lettori di un quotidiano ‘prestigioso’ valgono diecimila lettori di un quotidiano indecente. Stiamo sempre lì: la legge è eguale per tutti purché si riconosca che ci sono soggetti di diritto più eguali degli altri. E ovviamente saranno i Marcello Sorgi e i Gianni Riotta (che inaugurò la sua infelice direzione del ‘Sole 24 ore, quotidiano della Confindustria, con un paginone elogiativo del ‘Manifesto’ e di Valentino Parlato!) a dirci chi sono quelli ‘più eguali’.
Per quanto mi riguarda, l’unica eguaglianza che riconosco, in certe materie, è quella «davanti al» mercato e, pertanto, lo ripeto, non darei un soldo a nessun quotidiano in deficit di acquirenti ma a chi proprio decidesse di mostrarsi generoso — a spese dei contribuenti, ovviamente — consiglierei, per quanto riguarda i destinatari degli aiuti, di chiedere in prestito la benda alla dea Themis. Al ‘rispetto delle forme’ rimango testardamente legato.